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Tempi Moderni(ssimi): tra economia delle piattaforme e comportamenti sociali*

Oggi ho pagato il caffè con il telefono, mi ha portato il pranzo un ciclista, ho comprato una bottiglia di Barbera su un portale californiano e ho prenotato una stanza in un B&B a Roma su un sito irlandese. Il lavoro dalla fabbrica degli spilli è cambiato: non c’è più la fabbrica. Né il salario, né la mensa o i compagni e, nemmeno, il padrone. Così pure il lessico del lavoro cambia: i fattori di produzione vengono destrutturati dalla loro funzione storica e sociale, a partire da quei nomi così naïf, simboli delle lotte del passato, per dargli una veste più cool. Si è imposta una sorta di meta-semantica del lavoro: il rider, l’algoritmo, la gig economy, l’app.

I nuovi mostri?

Il dibattito sull’economia delle piattaforme è incentrato sul nuovo modello di business, trascurando che sono pure intermediari di lavoro. Infatti, come utenti siamo, implicitamente, sempre più spesso datori di lavoro e investitori. Dietro l’interfaccia riproduciamo comportamenti forieri di precarietà, bassi salari, cattive condizioni di lavoro, speculazioni. Da lavoratori esigiamo diritti che in qualità di datori non ci facciamo scrupolo di negare. Quando si sceglie un prodotto bio ci si chiede pure se il lavoro che incorpora è equo? Ciò è frutto di una stagione di scarsa cultura del lavoro e nuove possibilità tecniche che alimenta impieghi un tempo considerati inaccettabili.
C’è una deriva classificatoria che per collocare lavori che neanche immaginiamo usa categorie del passato e tassonomie esoteriche. È il sintomo di quanto la cassetta degli attrezzi sia obsoleta e il rischio spiazzamento elevato. Pertanto nella rilevazione PLUS dell’INAPP (Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche), si sono inseriti dei quesiti più per capire le attitudini che alimentano la domanda potenziale che per stimare la (ancora modesta) consistenza dell’occupazione relativa.

Quanto siamo disposti a condividere?

Quante persone sarebbero interessate a prendere un passaggio o a fare un soggiorno compensando i costi con il proprietario dell’auto o dell’abitazione? In pochi hanno già realmente messo a disposizione l’auto (4%) o la casa (1%), ma molti di più sono favorevoli in futuro a praticare tale possibilità: circa 40% per la condivisione dell’auto e il 10% per la casa (figura 1). L’incidenza sale se si ha una istruzione superiore, se si vive al nord, se si è giovane, se si proviene da una famiglia con istruzione e reddito alti. La fiducia nella comunità, nelle regole e nell’altro sono i prerequisiti affinché questi scambi possano realizzarsi.

Emerge, tuttavia, una forte componente empatica: socializzare è uno dei fattori più rilevanti (87% per chi offre un passaggio, il 65% per chi offre un soggiorno) nell’approcciarsi a questo tipo di scambi economici sui generis (figura 2). La componente finanziaria, intesa come mero risparmio o come vero e proprio guadagno è invece molto più marcata per la condivisione della casa (42 e 59%) rispetto all’auto (14 e 14%). Le attitudini sono reversibili ovvero appaiono simili la funzione attiva (mettere in condivisione) e quella passiva (prendere in condivisione).

Vecchie regole, nuove disuguaglianze

Emergono nuove modalità di scambio in quanto l’economia della condivisione consente di tenere insieme bisogni, lavoro e beni in una ottica extra-mercato, più funzionalista, attenta più all’uso che al possesso. Ad essere più attivi sono i più ricchi e istruiti, con un conseguente emergere di nuove disuguaglianze: è difficile trarre profitto dalla condivisione se non si ha una auto o una casa, se non si parla inglese…
Ma il successo di questi modelli da cosa è dovuto? In sintesi, dall’integrazione di tecnologie, dalla logistica a basso costo (addetti, fattorini), dall’internazionalizzazione della produzione, dall’uso di impieghi contingenti, dai vantaggi fiscali e dal lavoro implicito (il tempo speso dall’acquirente)…di new in questa economy non c’è molto.
Il cambiamento è stato veloce, ci ha colto impreparati. Forse perché le innovazioni tecnologiche questa volta sono state applicate alla fase dello scambio e non più solo a quella della produzione. La regolazione del lavoro tramite piattaforma dovrebbe rendere trasparente un mercato opaco – innovando la disciplina della intermediazione fra domanda e offerta di lavoro – e più agevole la successiva opera di qualificazione, allontanando i rischi di incorrere in processi di mercificazione degli individui coinvolti.
In conclusione, l’innovazione è come un ponte che rende disponibile uno spazio nuovo (mercato) che richiede un regolatore pubblico che delimiti le regole di gioco affinché questa opportunità non si tramuti in un ‘far west’ (si pensi ai vouchers di oggi o ai cococo di ieri) ma concorra prima al progresso civile e poi al benessere economico. Nessuna trasformazione del lavoro può far scadere di dignità l’occupazione o portare al paradosso che la macchina dia lavoro all’uomo (Mechanical Turk).

*Le opinioni espresse dagli autori non coinvolgono l’istituzione di appartenenza.

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