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Struttura sociale e disuguaglianze: due consigli per l’Istat

Il rapporto 2017 affronta il tema della struttura sociale e delle disuguaglianze in Italia. E’ una scelta senz’altro opportuna in un paese dove le disparità socio-economiche sono molto marcate ma restano marginali nel dibattito pubblico e nell’agenda politica. Il rapporto è stato criticato duramente per il modo in cui l’Istat ha concettualizzato e misurato la struttura sociale italiana. E’ una questione importante, perché il ‘come’ misuriamo le disuguaglianze determina quello riusciamo, o non riusciamo, a vedere. Detto questo, va aggiunto che il rapporto contiene molti spunti empirici interessanti e merita comunque di essere letto, a prescindere da questa querelle.

Misurare la struttura sociale italiana: perché innovare è necessario

Le critiche nascono dalla scelta dell’Istat di proporre una lettura della struttura sociale italiana basata su una classificazione multidimensionale, articolata in nove gruppi, definiti a partire da situazione professionale, età, cittadinanza e titolo di studio della persona di riferimento, nonché dal numero di componenti del nucleo familiare. Questi gruppi sono omogenei al loro interno per livello di reddito familiare.

Nelle pubblicazioni precedenti, l’Istat aveva invece adottato uno schema di classe sociale, messo a punto dai sociologi Cobalti e Schizzerotto per una ricerca sulla mobilità sociale. Questo schema comprende sei classi sociali: borghesia, classe media impiegatizia, piccola borghesia urbana, piccola borghesia agricola, classe operaia urbana, classe operaia agricola. L’Istat sostiene che questo schema non permette più di comprendere pienamente l’attuale struttura delle disuguaglianze sociali, perché le classi sociali si sarebbero progressivamente frammentate. E’ quindi necessario sperimentare la nuova classificazione multidimensionale.

L’Istat ha senz’altro ragione quando osserva che lo schema di classe Cobalti-Schizzerotto è obsoleto. Non c’era però bisogno di invocare una supposta frammentazione delle classi sociali (di cui Istat non fornisce alcuna evidenza empirica, visto che il rapporto non contiene alcuna analisi empirica della dinamica di lungo periodo della struttura sociale). Sarebbe bastato osservare che questo schema fu creato per studiare la mobilità sociale nelle coorti italiane nate tra il 1920 e il 1965, ossia in un contesto socio-economico radicalmente diverso. Uno schema che riserva due categorie su sei alle occupazioni agricole, che non distingue un semplice manovale da un operaio altamente specializzato e che ignora l’eterogeneità interna al lavoro impiegatizio è chiaramente inadatto a descrivere il contesto attuale.

 I limiti della classificazione Istat (e due consigli)

Si capisce quindi che l’Istat non potesse usare questo schema per descrivere l’Italia nel 2017. L’Istat ha scelto di usare uno schema nuovo, basato su un approccio induttivo: costruire categorie omogenee in termini di reddito, basate sulle caratteristiche summenzionate. Questi approcci induttivi hanno una qualche utilità al fine di produrre statistiche descrittive, ma scontano tre seri limiti.

Il primo è che la mancanza di una base concettuale induce a costruire categorie empiriche troppo eterogenee e poco credibili. L’esempio più lampante nel rapporto Istat è la categoria ‘anziane sole e giovani disoccupati’, un totale nonsense sociologico. Le difficoltà terminologiche in cui incappa l’Istat, ad esempio nel denominare una categoria ‘famiglie tradizionali della provincia’ sono difficoltà concettuali, derivanti dalla scelta di costruire categorie in base a un algoritmo statistico privo di basi teoriche.  E’ chiaro che poi ci si ritrova con categorie concettualmente informi.

Il secondo limite è che questo approccio ‘data-driven’ impedisce di usare la classificazione Istat per fare confronti nel tempo e nello spazio, essendo costruito specificamente in base a dati italiani recenti. L’analisi comparativa e del mutamento sociale sono fuori dal suo campo d’azione.

Il terzo limite nasce dalla scelta di costruire i gruppi sociali non solo in base alla situazione professionale della persona di riferimento, ma anche alla sua età, cittadinanza e titolo di studio. Gli schemi di classe si riferiscono invece solo alla situazione professionale e la ricerca recente va nella direzione di analizzare congiuntamente le influenze della classe sociale e di questi ulteriori fattori di disuguaglianza per esplorarne le interdipendenze. Tuttavia, se questi fattori entrano nella definizione stessa dei gruppi sociali, a quel punto non possono essere più analizzati autonomamente. Ad esempio, non potremo studiare se la cittadinanza influenza le opportunità scolastiche a parità di gruppo sociale di appartenenza, perché la cittadinanza è usata per identificare uno dei gruppi sociali (‘famiglie a basso reddito con lavoratori stranieri’). Il problema è che l’influenza della cittadinanza sulle opportunità educative si estende ben al di là di questa singola categoria! Lo stesso dicasi per le influenze della scolarità su stili di vita, consumi culturali o partecipazione civica: nel rapporto Istat esse scompaiono sistematicamente dietro i nove gruppi sociali. Insomma, l’Istat per un verso teorizza la frammentazione delle classi sociali, per un altro riduce l’analisi delle disuguaglianze in base a classe sociale, istruzione, generazione e cittadinanza a una classificazione a nove categorie. Una semplificazione eccessiva.

Per concludere, due consigli per l’Istat. Il primo è abbandonare lo schema Cobalti-Schizzerotto a favore dello schema di Erikson e Goldhorpe (1992) che ha una base concettuale chiara, è stato estesamente validato ed è il più utilizzato nelle analisi comparative e dinamiche delle disuguaglianze. Soprattutto, questo schema si presta bene a studiare le società postindustriali: distingue quattro frazioni della classe operaia (lavori non manuali di routine, lavori manuali qualificati, non qualificati e occupazioni agricole), articola quattro frazioni delle classi medie (tecnici e supervisori, classe media impiegatizia, piccola borghesia urbana e agricola) e due delle classi superiori (distinguendo così le professioni e i ruoli dirigenziali di alto livello dalle altre occupazioni della borghesia). Questa innovazione richiede che finalmente Istat innovi il modo in cui rileva le occupazioni nelle indagini che erano pensate per arrivare a costruire lo schema Cobalti-Schizzerotto.

Il secondo consiglio è analizzare congiuntamente le influenze di classe sociale, titolo di studio, generazione e cittadinanza per stabilire il peso autonomo di questi fattori, vedere come interagiscono tra loro e infine stabilire se queste interazioni siano più frequenti che in passato. Dopodiché si potrà cominciare a parlare di frammentazione delle classi sociali.

Riferimenti bibliografici

Erikson, R., Goldthorpe, J.H., 1992, The Constant Flux, Oxford, Clarendon Press.

 

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