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Retribuire il lavoro domestico: chi paga, a chi, e, soprattutto, quando?

L’articolo di Eliana Viviano riapre una questione fondamentale: che cosa ci sta a fare un sistema previdenziale? Cosa vogliamo da esso, e quanto siamo disposti a pagare per ottenerlo? Domande complesse, che per giunta ne sollevano molte altre (sistemi di finanziamento, tenore di vita garantito ai pensionati, adattabilità ai cicli economici e demografici ecc.), cui certo non si può pensare di dare una risposta in poche righe[1].

Ma si possono affrontare alcuni aspetti di contorno, tra cui quello della differenza di trattamento tra uomini e donne. Chiara Saraceno , giustamente, tenta di distinguere, all’interno delle mura domestiche, tra il lavoro svolto a vantaggio di singoli, magari adulti (marito, figli, fratelli, ecc.), e quello di cui beneficia la società. E lancia un messaggio: che i privati paghino per i servizi privati, e la collettività per i servizi di utilità pubblica, come ad esempio allevare un minore (se pensiamo che la società ne abbia bisogno), o assistere un anziano non autosufficiente. Non sempre è facile distinguere, d’accordo, e neppure individuare il “giusto” prezzo per ognuno di questi servizi, ma che almeno si salvaguardi il principio.

 

Contributi figurativi o retribuzione?

Sono in disaccordo, non solo con Viviano, ma anche con Saraceno (e con tanti che la pensano come lei come ad esempio Alessandro Cigno) riguardo all’idea che, per certi servizi “domestici” di pubblica utilità, come ad esempio accudire un infermo o mettere al mondo un figlio, si debbano corrispondere contributi figurativi. Ma perché?

Un contributo figurativo è un credito che tra un bel po’ di anni, quando si sarà in pensione, o in procinto di andarvi, si potrà esigere sotto forma di abbassamento dell’età pensionabile o di aumento dell’assegno pensionistico. Per il singolo (beh, per la singola: è principalmente delle donne che si parla qui) può anche essere equivalente ricevere 100 euro immediatamente, sotto forma di retribuzione per il servizio svolto, o 150 Euro di pensione in più, tra un bel po’ di anni – benché sia lecito interrogarsi su come ragionano le persone quando si tratta di comparare il presente, certo, con un futuro remoto e incerto, e il proverbio dell’uovo oggi generalmente preferito alla gallina domani dovrebbe forse farci riflettere su questo. Rinviare i pagamenti rischia di costare caro, o, se non si offre abbastanza, rischia di rendere poco soddisfatti i beneficiari, e di non fornir loro stimoli sufficienti perché facciano quel che si vorrebbe che facessero: generare figli, curare anziani ecc.

Ma, soprattutto, l’alternativa non è equivalente per la società. Riconoscere crediti figurativi è un modo per non pagare subito i servizi che si ricevono oggi, e scaricare i costi sulle generazioni future – e questo è tanto più vero in un sistema previdenziale a ripartizione, in cui i contributi correnti pagano le pensioni correnti. Se oggi riconosco un contributo figurativo, domani, a parità di tutto il resto, ci saranno più crediti pensionistici che verranno a maturazione, e si dovrà scegliere tra abbassare le pensioni (danneggiando i pensionati del futuro), alzare i contributi (colpendo i lavoratori del futuro), aumentare il debito previdenziale (scaricando i costi sulle generazioni ancora più lontane nel tempo), o combinare queste possibilità.

E se cominciassimo a maturare l’idea che i contributi figurativi sono semplicemente una truffa ai danni delle generazioni future?

 

Retribuzione o servizi pubblici?

Lasciatemi rispondere immediatamente a due delle numerose obiezioni cui state pensando. E’ immorale pagare le mamme perché facciano figli, o, più in generale, pagare qualcuno perché si prenda cura di un parente malato: così si mercificano e si corrompono i delicati rapporti che si instaurano all’interno di una famiglia, soprattutto in certe fasi particolari della vita (la nascita, la malattia ecc.). E poi è inefficiente, perché soluzioni collettive (come ad esempio i nidi o le case di riposo per anziani) consentirebbero di ottimizzare le risorse, permettendo a relativamente pochi o poche “badanti” di prendersi cura di tanti potenziali utenti.

La prima obiezione è ipocrita: con i contributi figurativi e con la detrazioni per i carichi di famiglia queste cose già si fanno. La sola differenza è che si fanno un po’ di nascosto, quasi vergognandosene, per giunta in maniera un po’ contorta e spesso, come detto, scaricandone i costi sul futuro. Si tratta, quindi, non di fare una cosa nuova, ma di farla in modo nuovo, più trasparente, dichiarando espressamente “Per me (società) questo servizio vale tot, e io (società), lo pago oggi per quel che penso valga oggi”. Che questo possa minare i rapporti familiari è molto dubbio: ben di più questi rapporti sono minati dall’avere non solo il carico di cura, ma anche l’assenza di sostegno economico (v. ad esempio Luciano Abburrà & Elisabetta Donati, Ferragosto, mamma mia non ti conosco!).

La seconda obiezione, invece, è probabilmente valida, e io per primo tendo a pensare che le soluzioni collettive siano preferibili. Ad esempio, mettere 20 bambini in un asilo, “liberando” 20 famiglie, e occupando solo uno o due educatori, appare a priori la scelta più sensata. Non sempre è praticabile: se gli utenti sono molto dispersi sul territorio, ad esempio, si pone un non trascurabile sistema di trasporti. Non sempre è ciò che vogliono le famiglie, che, per varie ragioni, possono talvolta preferire di stare accanto ai loro cari anziché affidarli a terzi. Ma certamente si può operare, sotto questo profilo, meglio di quel che facciamo noi, e del resto il Nord d’Europa offre ben più servizi dell’Italia, l’Italia del Nord più di quella del Sud, ecc.

Ma, forse, quella tra il sostegno finanziario alle famiglie e l’offerta di servizi è una falsa alternativa. Si potrebbero fare entrambe le cose: dare soldi alle famiglie e, in più, creare servizi, ma a pagamento. Io ricevo 100 perché ho un anziano da curare, e posso scegliere tra curarlo personalmente (tenendo i soldi) o affidarlo a una casa di cura, che (ipotizziamo per semplicità) costa 100. In questo secondo caso, non ho i soldi (e non ho contributi figurativi), ma sono libero di condurre la mia vita abituale. Ovviamente, entrate e uscite non si compenseranno mai in maniera esatta, e non è neppure necessario che lo facciano: l’esempio serve solo per indicare che entrambe le strade sono percorribili (sostegno finanziario e servizi a pagamento), e non sono necessariamente alternative.

Costano molto, questo sì, e, se i costi non si scaricano su chi verrà dopo, costringono a scelte difficili o dolorose. Tra queste, ad esempio, innalzare l’età pensionabile, per uomini e donne, portando quella delle donne, che campano più a lungo, come minimo al livello di quella degli uomini – senza scandalo. Ma anche abbassare l’età di ingresso nel mondo del lavoro, che porterebbe con sé altri, non trascurabili vantaggi, soprattutto per i giovani, che potrebbero diventare autonomi un po’ prima, uscire dalla casa dei genitori, mettere su famiglia, …

E anche, finalmente, prendere coscienza del fatto che l’arrivo di immigrati è un toccasana per noi, perché ci consente di fare pochi figli, limitando comunque l’invecchiamento, e ci dà modo di accudire ai nostri anziani a costi relativamente contenuti. Finché dura …


[1] Ma in un centinaio di pagine sì: e mi permetto di citare il mio Previdenza: a ciascuno il suo?, Il Mulino, Bologna, 2006.

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