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Non è una pensione per vecchi

E’ uscito a gennaio il volume on line dell’Istat “I trattamenti pensionistici (Anno 2007)” (http://www.istat.it/dati/catalogo/20100119_00/). Si parla di dati del 2007 e quindi non particolarmente “freschi”, ma anche così vale forse la pena di soffermarsi a riflettere su alcuni aspetti un po’ paradossali del nostro sistema previdenziale.

Fuori equilibrio
In Italia si sono pagate, nel 2007, quasi 24 milioni di pensioni: prevalentemente  di vecchiaia (e anzianità: poi ci torniamo); ma anche per mancanza o riduzione di capacità lavorativa per menomazione congenita o sopravvenuta, per infortunio sul lavoro o a causa di eventi bellici (invalidità o indennità); o, infine, per morte della persona protetta (superstiti). Considerato che, nel 2007, gli occupati erano stati, in media annua, circa 23,2 milioni (Indagine Istat sulle Forze di lavoro, http://www.istat.it/dati/catalogo/20090202_00/) ecco che ci troviamo con più di una pensione da pagare per ogni occupato! L’importo medio annuo delle pensioni ha sfiorato i 10 mila euro: individualmente non si largheggia, dunque, ma nell’insieme questo ci costa 233 miliardi di euro/anno in pensioni, cioè oltre il 15% del PIL.
Le cose peggioreranno considerevolmente nel prossimo futuro dal punto di vista demografico, visto che l’indice di vecchiaia (anziani /adulti) raddoppierà da qui al 2050 (fig. 1). Sorge allora spontanea una domanda: se già ora siamo oberati da questo carico previdenziale, che faremo domani?
Inoltre, il sistema previdenziale non è in equilibrio. E’ vero che tra le 24 milioni di pensioni erogate ve ne sono anche parecchie di assistenza (quasi 6 milioni), e queste, per definizione, non sono coperte da versamenti contributivi. Ma queste pensioni costano “solo” 29 miliardi di euro/anno. Invece, i restanti 203 miliardi di euro/anno (oltre il 13% del Pil) sono spesi per previdenza, e le entrate previdenziali non bastano a coprire le uscite (v. Gustavo De Santis, Pensioni: dati freschi per un tema ancora caldo)

Chi prende la pensione?
La pensione, contrariamente a quel che si può pensare, la si può prendere un po’ a tutte le età. Entro certi limiti, questo è normale, perché ci sono anche le pensioni di reversibilità e quelle di invalidità. Ma quelle di vecchiaia? Ebbene, anche quelle – incredibilmente! – possono andare a beneficio di persone relativamente giovani, o comunque non vecchie: circa 90 mila sono state erogate prima del 55° compleanno, e altri 3 milioni sono andate a persone tra il 55° e il 65° compleanno (tab. 1).

Tab. 1 – Pensioni di vecchiaia in Italia, nel 2007
 

Età dei beneficiari   Valore (media annua)
N. Euro N. Indice
40 54 90.487 19.477 158,8
55 64 3.037.810 17.147 139,8
65 79 9.225.385 11.677 95,2
80 +   3.777.986 9.616 78,4
Non ripartibili 1.263 12.547 102,3
Totale 16.132.931 12.265 100,0

Fonte: Istat, I trattamenti pensionistici (Anno 2007)
(http://www.istat.it/dati/catalogo/20100119_00/).

In termini di numero di pensioni, questi “baby pensionati” costituiscono circa il 20% del problema delle pensioni di vecchiaia nel nostro paese, ma i termini di importo (cioè, di soldi) pesano ben di più, quasi il 30% del totale, perché, come si vede dalla tab. 1, la pensione è, mediamente, tanto più alta quanto più il pensionato è giovane. E non di poco: i pensionati con meno di 55 anni (che normalmente potrebbero lavorare, e spesso infatti lo fanno) prendono mediamente il doppio dei pensionati con 80 anni e più: in cifra tonda, 20 mila contro 10 mila euro/anno.

E quindi?
L’Italia è, tra i paesi ricchi, un paese vecchio, ma non è il più vecchio e non è comunque molto diverso, sotto questo profilo, rispetto a tanti altri, dalla Germania, al Giappone. E non si distingue molto dagli altri quanto a ammontare della spesa sociale (circa il 27% del Pil) – è anzi lievemente sotto media, quanto a questo.
Ma è completamente fuori linea come peso previdenziale in rapporto al Pil – circa il doppio rispetto alla media OCSE – (http://www.oecd.org/dataoecd/29/27/43132878.pdf), e anche come aliquote contributive (33%, contro 21% nella media degli altri paesi OCSE).
I motivi, come sempre avviene nei fatti della vita vera, sono molteplici e complessi. Ma la ragione principale è facile da individuare: si pagano pensioni a persone troppo giovani (tipicamente, pensioni di anzianità), e queste pensioni, per giunta, sono le più generose.
Questa è la prima distorsione da correggere. Poi, potremo passare a occuparci degli altri problemi: ad esempio di come far crescere l’età pensionabile (quella teorica è 65 anni, ma quella effettiva è vicina a 60) e come tenerla in linea con la crescente durata media della vita. Potremmo finalmente domandarci se vogliamo pensioni attuarialmente eque (chi versa più contributi prende pensioni più alte), egalitarie (tutti prendono lo stesso ammontare) o in parte una cosa e in parte l’altra, in percentuali che la collettività dovrebbe esplicitamente scegliere in sede politica.
Potremmo focalizzarci sul cosiddetto tasso di sostituzione (= rapporto tra pensione media e salario medio, nella definizione dell’OCSE), e domandarci se questo rapporto (pari a circa il 68% in Italia e al 59% negli altri paesi OCSE – ma da noi destinato a diminuire drasticamente) debba avere un valore obiettivo predefinito – come io credo – o se invece lo si debba lasciare variare, più o meno a caso.
Si potrebbe ragionare di come far crescere l’occupazione, a tutte le età, ma soprattutto tra i giovani, e tra i “maturi” (55-64 anni); di come farla crescere tra le donne; di come accogliere con più favore gli immigrati (che ringiovaniscono il paese, e che lavorano); di come contrastare la patologicamente bassa fecondità, che, in prospettiva, toglie lavoratori e quindi contributi al sistema previdenziale italiano: sono tutte cose che incidono sul problema pensionistico, e contribuiscono a renderlo più o meno grave. Si potrebbe discutere dell’opportunità di avere un sistema che paga pensioni relativamente generose all’inizio, ma poi lascia che si svalutino, rendendo gli anziani progressivamente più poveri. O dell’equità di coefficienti di conversione che si sono abbassati dal 1° gennaio, rendendo più povero chi va in pensione oggi, ma non toccando gli importi di chi ha smesso di lavorare a entro il dicembre 2009.
E’ una situazione complessa, la cui storia, ricordata anche recentemente dal Governatore della Banca d’Italia (Mario Draghi, I motivi dell’assicurazione sociale), in fondo ribadisce il principio generale che gli errori del passato (prepensionamenti, pensioni generose poco collegate ai versamenti, ecc.) si pagano, prima o poi. A pagare adesso siamo noi, e ancor di più lo saranno i nostri (pochi) figli, nei prossimi anni.

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