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Migrazioni nei Balcani: nuovi muri, nuove rotte

In un contesto di forte diminuzione dell’immigrazione irregolare in Europa, Ferruccio Pastore avverte che nei Balcani la tensione resta alta. Lungo alcuni confini interni, molti dei quali furono fronti di guerra, esiste il rischio che migranti e rifugiati possano diventare il detonatore, incolpevole e inerme, di una conflittualità non sopita.

Narrazioni ufficiali e realtà sul terreno

Sono passati più di due anni da quando (9 marzo 2016), con un tweet trionfale, il presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, annunciava la “chiusura” della rotta balcanica”, rivendicandola espressamente come un successo dell’Unione europea.

In un recente comunicato stampa (21 maggio 2018), l’agenzia europea deputata al controllo delle frontiere, Frontex, confermava questa rappresentazione rassicurante: nel mese di aprile 2018 gli attraversamenti irregolari delle frontiere esterne dell’Unione sono stati 10.500, un terzo in meno dello stesso mese dell’anno precedente. Se invece consideriamo i primi quattro mesi di quest’anno, il calo è stato addirittura del 44%, principalmente – come osservano gli analisti basati a Varsavia – “a causa della diminuita pressione migratoria sulla rotta del Mediterraneo centrale” (9.400 arrivi dall’inizio dell’anno, tre quarti in meno rispetto al 2017).

Nelle pieghe dello stesso comunicato, però, si trova un dato di segno diverso: sulla cosiddetta rotta del Mediterraneo orientale, i 14.900 arrivi registrati da gennaio ad aprile sono quasi il doppio dell’anno scorso-L’aumento è stato causato principalmente dall’incremento degli attraversamenti irregolari alla frontiera di terra con la Turchia.

Si tratta di numeri irrisori rispetto a quelli del 2015-2016, che consentono di non mettere in discussione la narrazione rassicurante diffusa all’indomani dell’accordo del marzo 2015 con la Turchia: la “rotta balcanica” rimane ufficialmente chiusa.

Anche il recente vertice UE-Balcani del 17 maggio, tenutosi a Sofia, si è limitato a trattare di migrazioni come questione di sicurezza e in chiave preventiva. Nella Dichiarazione finale e nell’annessa lista di priorità si parla diffusamente di controllo delle frontiere, contrasto alla tratta di esseri umani e al traffico di migranti, rafforzamento della cooperazione tra Frontex e gli stati della regione. La “messa in sicurezza” dal “rischio migratorio”, avviata da anni, prosegue e si rafforza (e la proposta di budget per i prossimi sette anni prevede un ulteriore raddoppio delle risorse per migrazioni e border management). Nessun cenno, invece, a un rafforzamento delle capacità di accoglienza, protezione e di integrazione in loco.

Questa dunque la prospettiva da Bruxelles, ma dall’interno della regione, la realtà appare diversa. Come hanno testimoniato diversi ricercatori e operatori, nel quadro della terza conferenza annuale del Western Balkans Migration Network, svoltasi il 25-26 maggio a Zagabria, la rotta dei Balcani occidentali non è affatto un retaggio del passato.

L’infrastruttura di informazioni, relazioni, reti di sostegno (solo alcune delle quali operano a scopo di lucro e si possono etichettare come criminose), formatasi in quegli otto drammatici mesi del 2015-2016, esiste ancora. Se non opera a pieno regime, è solo perché la risposta repressiva è stata dura e, almeno nel breve periodo, efficace. Gli “effetti collaterali” sui diritti fondamentali di migranti e rifugiati, però, sono pesanti, come documentano diverse organizzazioni non governative e persino un osservatorio ad hoc.

La volatilità delle rotte migratorie

La tensione rimane dunque alta in tutta la regione, e le dinamiche sul terreno si evolvono. Perché, in realtà, l’espressione “rotta balcanica”, al singolare, non è mai stata calzante, e lo è ancora meno oggi. Nel senso che le traiettorie principali percorse dai migranti in provenienza dal Medio Oriente nel corso degli ultimi tre anni sono state almeno due, a cui oggi sembra aggiungersi una terza.

La prima rotta (indicata con una linea tratteggiata e la lettera A nella mappa qui sotto) fu importante fino al 2015, quando la Bulgaria ultimò la costruzione di una barriera di “nastro spinato” (razor fence è il termine inglese: qui un campionario particolarmente ricco) alla sua frontiera con la Turchia. Sebbene la versione originaria della rotta A oggi appaia inattiva, si sono manifestate recentemente avvisaglie di alcune sue varianti verso la Romania, o via terra dalla Serbia o via Mar Nero dalla Turchia.

Da agosto 2015 a marzo 2016, prevalse la rotta B (linea continua sulla mappa), che dalla Grecia attraversava la Macedonia e poi la Serbia, per poi varcare nuovamente la frontiera esterna dell’UE entrando in Ungheria. L’erezione di barriere anti-migranti alla frontiera ungherese nel settembre 2015, però, spinse i flussi a occidente, attraverso la Bosnia e la Croazia, e poi di lì a nord, ancora verso l’Ungheria, o a nord-ovest, in territorio sloveno.

Da qualche mese, le organizzazioni della società civile e i media della regione – nella disattenzione di quelli internazionali – segnalano l’apertura di una nuova rotta (indicata nella mappa con la lettera C e la linea puntinata), che dalla Grecia condurrebbe i migranti (perlopiù siriani, iracheni e afgani) attraverso l’Albania e la Bosnia, fino alla frontiera croata, nella zona intorno alla cittadina bosniaca di Velika Kladuša.

Si tratta di un punto strategico, dal punto di vista delle persone in movimento, perché in quel punto la Croazia si stringe in un collo di bottiglia, e basta percorrere poche decine di chilometri per arrivare in Slovenia (e quindi in area Schengen). A differenza delle pianure serbe in cui si snodò l’esodo del 2015, però, le montagne bosniache sono un ambiente impervio, ancora infestato dalle mine anti-uomo interrate nel conflitto di un quarto di secolo fa. Inoltre, il fiume Kupa (o Kolpa, in sloveno), che separa la Croazia dalla Slovenia, è insidioso, e già più di un migrante sarebbe annegato nel tentativo di sconfinare.

Non è chiaro se coloro che si presentano in queste settimane alla frontiera croato-bosniaco si siano rimessi in marcia dopo essere rimasti arenati per mesi, o addirittura anni, in Grecia; oppure se, come alcuni sostengono, arrivino dalla Serbia, dove il governo avrebbe deciso di svuotare di nascosto alcuni campi di “accoglienza”. Quello su cui si vanno accumulando le testimonianze, invece, sono le pratiche violente adottate dalla polizia croata. In questa situazione, le organizzazioni della società civile attive a cavallo della frontiera si trovano sotto pressione crescente, volta a volta accusate di favoreggiamento o utilizzate dai governi per tamponare l’emergenza (ambiguità peraltro già vista nel Mediterraneo centrale).

Nel frattempo, la tensione politica intorno alla questione migratoria ricomincia a crescere; non solo tra governi nazionali, ma anche tra le entità create nel 1995 dagli accordi di Dayton: i cantoni della Federazione di Bosnia ed Erzegovina (FBiH) e la Repubblica Srpska (SR). Lungo questi confini interni, molti dei quali furono fronti di guerra, sono in molti a temere che migranti e rifugiati possano diventare il detonatore, incolpevole e inerme, di una conflittualità non sopita. Solo in questo senso indiretto – come sostiene con ironia amara e angosciata una volontaria della zona di Bihać – queste persone in cerca di sicurezza sono esse stesse una “minaccia alla sicurezza” dei Balcani e in definitiva anche dell’Europa.

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