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Mario Draghi, da Roma a Francoforte

Lo scorso 31 di maggio, il Governatore Mario Draghi ha svolto le tradizionali "Considerazioni finali" di fronte all’assemblea dei partecipanti della Banca d’Italia. Considerazioni assai attese, non solo perché la Banca d’Italia è una delle pochissime istituzioni con  l’autorevolezza, l’indipendenza e la capacità di analisi necessarie per farsi ascoltare, ma anche per le particolarità del momento – l’economia che sta faticosamente riemergendo dalla crisi – e dell’occasione: si tratta dell’ultimo intervento annuale di Mario Draghi prima del suo passaggio al timone della Banca Centrale Europea previsto per il prossimo autunno. Riportiamo perciò (in carattere corsivo)  i passi più rilevanti su alcuni tra i temi di maggiore interesse per i nostri lettori.

La crisi del 2008-09 non è quella del ’29!
         Ci sono stati personaggi assai autorevoli che hanno paragonato la crisi attuale a quella del ’29, sia per drammatizzarne il profilo, sia per fare risaltare la capacità di resistenza del paese. Il Governatore ha rimesso le cose al loro posto: negli Stati Uniti, la crisi del ’29 ridusse l’attività manifatturiera del 40 per cento, e la disoccupazione superò il 30 per cento.
La recente crisi è stata molto meno devastante, anche perché
la risposta delle politiche economiche alla crisi del 2008-09 è stata tempestiva, efficace, coordinata fra paesi….E’ stato evitato il collasso del sistema finanziario internazionale. Possiamo trarre oggi alcune  lezioni da questa crisi: la rete di protezione sociale, che ha tenuto, è essenziale; i dissesti bancari vanno gestiti; la cooperazione internazionale, fondamentale  durante l’emergenza, lo rimane nella costruzione del sistema.
         Già, la “rete di protezione sociale”, continuamente minacciata dalle forbici dei risanatori di bilancio, ha una funzione essenziale in un paese civile e non solo perché salvaguarda la posizione dei più deboli vittime di una crisi, ma anche perché rende possibile e più sollecita la loro “ripartenza” al termine di questa, con vantaggi per tutta la collettività.
        

Formazione e istruzione: quanto ci costano ritardo e inefficienza!
         L’insoddisfacente funzionamento del nostro sistema formativo ha numerosi sintomi che risaltano soprattutto quando si compari il nostro con gli altri paesi sviluppati: competenze non adeguate fin dall’adolescenza; cicli formativi compiuti in grave ritardo; troppi abbandoni; gravi disparità territoriali; pochi laureati. Ma le analisi ci dicono anche qualcos’altro: ritardi e inefficienze ci costano fino a un punto di PIL all’anno nel ritmo di crescita. Dunque: insegniamo meglio, utilizziamo meglio i soldi pubblici, e studiamo di più!
Occorre proseguire  nella riforma del nostro sistema di istruzione, già in parte avviata, con l’obbiettivo di innalzare i livelli di apprendimento, che sono tra i più bassi nel mondo occidentale anche a parità di spesa per studente. Troppo ampi restano i divari interni al paese: tra Sud e Nord, tra scuole della stessa area, anche nella scuola dell’obbligo. Nell’università è auspicabile una maggiore concorrenza tra atenei, che porti a poli di eccellenza in grado di competere nel mondo; è ancora basso nel confronto internazionale il numero di laureati. Secondo valutazioni dell’OCSE, il distacco del sistema educativo italiano dalle migliori pratiche mondiali potrebbe implicare a lungo andare un minore tasso di crescita del PIL fino a un punto percentuale.

Giovani precari, donne scoraggiate
         Può un paese moderno dividere in due il mondo del lavoro con una riga divisoria che spesso si rivela insuperabile? Da una parte i lavori atipici, precari, poco o nulla tutelati e a bassi salari, dall’altro i lavoratori a tempo indeterminato? Certo che no, e tutti lo sanno, ma in un quindicennio si è fatto davvero poco, con un costo crescente per i meno tutelati, ma anche per la coesione del paese. Ed è proprio in tempo di crisi che occorrerebbe una decisa inversione di rotta che aiuterebbe a riprendere il cammino dello sviluppo.
La diffusione nell’ultimo quindicennio dei contratti di lavoro a tempo determinato e parziale ha contribuito a innalzare il tasso di occupazione, ma a costo di introdurre nel mercato un pronunciato dualismo: da un lato i lavoratori a tempo indeterminato, maggiormente tutelati; dall’altro una vasta sacca di precariato, soprattutto giovanile, con scarse tutele e retribuzioni. Riequilibrare la flessibilità del mercato del lavoro, oggi quasi tutta concentrata nelle modalità d’ingresso, migliorerebbe le aspirazioni di vita dei giovani; spronerebbe le unità produttive a investire di più nella formazione delle risorse umane, a inserirle nei processi produttivi, a dare loro prospettive di carriera.
         E se non si vuole che il ritardo dell’Italia si accresca, occorre fare appello alle forze di milioni di donne, capaci, istruite e volenterose costrette a restare fuori del mercato del lavoro.
La scarsa partecipazione femminile al mercato del lavoro è un fattore cruciale di debolezza del sistema, su cui stiamo ora concentrando la nostra ricerca.  Oggi il 60 per cento dei laureati è formato da giovani donne: conseguono il titolo in minor tempo dei loro colleghi maschi, con risultati in media migliori, sempre meno nelle tradizionali discipline umanistiche. Eppure in Italia l’occupazione femminile è ferma al 46 per cento della popolazione in età da lavoro, venti punti in meno di quella maschile, più bassa che in quasi tutti i paesi europei soprattutto nelle posizioni più elevate e per le donne con figli; le retribuzioni sono, a parità di istruzione ed esperienza, inferiori del 10 per cento a quelle maschili. Il tempo di cura della casa e della famiglia, a carico delle donne,  resta in Italia molto maggiore che negli altri paesi: aiuterebbero maggiori servizi ed una organizzazione del lavoro volti a consentire un migliore conciliazione tra vita e lavoro, una riduzione dei disincentivi impliciti nel regime fiscale

I danni del familismo…imprenditoriale
         L’efficienza e l’intensità delle reti familiari è una buona prerogativa della società italiana: le persone raramente vengono lasciate sole. Ma ci sono anche i costi di un familismo esagerato che pesano non solo sugli individui, ma anche sulle imprese.   
Una diffusa  proprietà familiare delle imprese  non è caratteristica solo italiana; lo è invece il fatto che anche la gestione  rimanga nel chiuso della famiglia proprietaria Fra le imprese manifatturiere con almeno 10 addetti, quelle in cui sia il controllo sia la gestione sono esclusivamente familiari sono il 60 per cento in Italia, meno del 30 in Francia e Germania; in queste imprese la propensione a innovare  è minore, l’attività di ricerca e sviluppo meno intensa, scarsa la penetrazione nei mercati emergenti.

         Le “Considerazioni finali” affrontano molti altri nodi della società e dell’economia italiana che vanno sciolti per “tornare alla crescita”: le inefficienze del sistema giudiziario civile, che ci costa un altro punto di PIL; la scarsa concorrenza nel settore dei servizi; il forte ritardo nella dotazione di infrastrutture; le rugginose relazioni industriali; l’insufficiente protezione di chi perde il lavoro ma ne cerca attivamente un altro… E poi, in tempi di risorse scarse, occorre mettere a dieta il bilancio pubblico, ma non con i rozzi “tagli lineari” che penalizzano chi è efficiente e non penalizzano abbastanza chi spreca. Ma, caro lettore di Neodemos, vai al sito della Banca d’Italia per una lettura del documento: è breve,  chiaro e molto istruttivo.


Le “Considerazioni finali” possono leggersi integralmente all’indirizzo
http://www.bancaditalia.it/interventi/integov/2011/cf_10/cf10/cf10_considerazioni_finali.pdf

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