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L’Italia salvata dai nonni (finché regge la salute) (*)

Il welfare dei nonni

Benevento, Italia. In un meridione in piena denatalità il 10 gennaio 2010 avviene un parto eccezionale: nascono sei gemelli. Felice e frastornato il padre, dopo aver ringraziato i medici, lancia un appello: “Adesso chiediamo aiuto ai nonni: questi sono i primi nipoti, e sono sei!”.

Benedetti nonni! Se non ci fossero loro le famiglie italiane come farebbero? Certo le disposizioni della legge 53/2000 (congedi di maternità e genitoriali) possono aiutare nei primi mesi (sempre che si abbia la fortuna di essere lavoratori dipendenti e di avere un reddito sufficientemente alto da potersi permettere la sua decurtazione al 30% prevista per il congedo genitoriale). Ma poi lo Stato e i comuni cosa fanno per aiutare le famiglie nella cura dei figli appena nati? Poco o nulla. La copertura degli asili nido pubblici si attesta attorno al 12%, e nel Sud del paese non si arriva nemmeno al 5% (Istat). Problema che non si pone se si ha l’accortezza di vivere vicino ai nonni e la fortuna di averli in salute, in modo da poter avere un piccolo “asilo privato fai-da-te”. Dall’analisi dei dati dell’indagine Istat Famiglie e Soggetti Sociali risulta che solo il 16% dei giovani italiani usciti di casa abita a più di 50 km dai genitori, e il 62% di essi vive nello stesso comune. I dati dell’indagine SHARE, poi, ci dicono che “solo” il 44% dei nonni in Italia fornisce aiuto di cura ai propri figli (una percentuale più bassa che in altri paesi Europei), ma quando lo fa è reclutato in maniera “quasi full time”: la media è di più di 1400 ore di aiuto per anno (solo i nonni Greci ci sorpassano).

E’ così che funziona il sistema di welfare italiano. E, secondo il governo, così funzionerà anche nel 2020. Infatti il recente documento congiunto del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali e del Ministero per le Pari opportunità intitolato “Italia 2020. Piano per l’inclusione delle donne nel mercato del lavoro” recita a pagina 15: “Sempre più numerose sono le famiglie nelle quali gli anziani, coabitanti o meno, offrono il loro aiuto nelle azioni di accompagnamento e di assistenza dei minori, assicurando così alla donna la possibilità di partecipare al mercato del lavoro, oppure mettono a disposizione la loro pensione nella vita familiare. E nello stesso tempo trovano nelle famiglie la risposta ai loro bisogni e alle loro paure. È questo il patto intergenerazionale che vogliamo promuovere” (1).

Allora meglio non cercare un lavoro troppo lontano, perché altrimenti chi ci aiuta in caso di necessità? La pensione agli attuali nonni non la toglie nessuno, il lavoro è invece sempre più precario e sempre meno tutelato. Avanti così? Secondo i dati forniti recentemente dal governatore della Banca d’Italia sono 1,6 milioni i lavoratori in Italia senza garanzie. Quindi meglio tenersi buoni i nonni, nel sistema italiano. Oppure rinunciare ad avere figli. E se si hanno figli e non si hanno a disposizione i nonni, a rimetterci è soprattutto l’occupazione della madre. Non a caso in Italia solo il 47,2% delle donne sono occupate (nell’Unione Europea solo Ungheria e Malta fanno peggio di noi. Siamo anche uno dei paesi europei con il più alto tasso di povertà tra i minori: secondo le key figures del Luxembourg Income Study circa il 30% dei minori in Italia vivono in povertà, in Francia la percentuale è sotto il 16%, in Germania il 14% e persino Spagna (24%), Polonia (25%) e Romania (17%) fanno meglio di noi.

E ancor più, poi, il sistema mostra le sue lacune e la sua precaria sostenibilità in prospettiva, quando si considera anche la crescente necessità di accudimento degli anziani non autosufficienti. Anche su questo fronte la carenza di servizi pubblici si trasforma in un maggior carico sulle famiglie e soprattutto sulle donne, asse portante degli aiuti informali.

 

Oltre il “familismo”

Perché il modello italiano rischia di avvitarsi su se stesso? Colpa della cultura familista che predilige il ruolo della solidarietà intergenerazionale o dell’incapacità politica di costruire un moderno sistema di welfare pubblico? Secondo Alesina ed Ichino (2) il problema è soprattutto culturale: agli italiani piace così. Hanno scelto loro un modello di sviluppo basato sull’economia informale e su un welfare “fai da te”. Legami familiari forti e grande sfiducia nei confronti del pubblico e dello Stato in generale hanno radici antropologiche profonde nell’area mediterranea. Ne deriva, secondo i due economisti, che gli italiani non vogliono più asili nido e che più che potenziare i servizi per l’infanzia sarebbe necessario incentivare il lavoro femminile (ad esempio attraverso una tassazione differenziata che renda più conveniente ai datori di lavoro assumere una donna anziché un uomo).

Al contrario, a nostro avviso, proprio l’investimento sui servizi pubblici, sia in termini di quantità che di qualità, potrebbe produrre i maggiori benefici. E’ proprio su questo aspetto che l’Italia è più carente. Del resto, il nostro paese soffre non solo di bassa occupazione femminile, ma, come ben noto, anche di bassa fecondità. E’ quindi soprattutto sulla possibilità di conciliare tali due ambiti di impegno e di realizzazione che bisogna prioritariamente puntare.

Certo, le misure di conciliazione devono essere di ampio spettro e favorire l’impegno dentro e fuori le mura domestiche di entrambi i membri della coppia (si pensi al potenziamento del part-time, all’introduzione di un congedo di paternità obbligatorio, ecc.). L’asilo nido è però uno degli strumenti indispensabili per una coppia di lavoratori che non voglia rinunciare ad avere figli non avendo nonni a disposizione. Non solo, la qualità stessa del servizio diventa anche il mezzo attraverso il quale attivare un nuovo rapporto di fiducia tra le famiglie e lo stato, superando alcune resistenze di fondo che non costituiscono un destino immutabile (3).

Chi, poi, ha i nonni a disposizione potrà continuare a preferirli, ma almeno non sarà costretto a condizionare le proprie scelte di vita alla loro prossimità abitativa e alla loro salute. Senza un welfare pubblico adeguato, efficiente e di qualità, le alternative non ci sono e gli aspetti più deteriori del familismo sono destinati a perpetuarsi.

 

Note

(1) M. Albertini (2009) “Italia 2020: la ricetta del governo è il familismo”, www.lavoce.info.

(2) A. Alesina, A. Ichino (2009), L’Italia fatta in casa, Mondadori.

(3) A. Rosina A., P.P. Viazzo (2008), “False convergenze e persistenze dinamiche”, in Rosina A., P.P. Viazzo (a cura di), Oltre le mura domestiche. Famiglia e legami intergenerazionali dall’Unità d’Italia ad oggi, Forum, Udine. Si veda anche il cap. 4 in D. Del Boca, A. Rosina (2009), Famiglie sole, il Mulino.

 

 

(*) Articolo disponibile anche su www.nelmerito.com

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