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L’Italia e la bassa fecondità: le politiche possibili

La debole demografia, dell’Italia e di molti altri paesi, richiede la costruzione di politiche che sono difficili da disegnare e da realizzare. Ne discute Gianpiero Dalla Zuanna che nel primo di due interventi si sofferma, in particolare su due aspetti: la difficoltà di individuare obbiettivi condivisi, e la scarsa conoscenza del legame reale fra politiche e comportamenti demografici.

Nel quarto di secolo precedente il 2010, il numero di nascite in Italia non è mai sceso sotto le 500mila unità (tasso di natalità attorno al nove per mille), perché la fecondità più bassa del mondo (sempre inferiore a 1,5 figli per donna a partire dal 1984) è stata in parte compensata dall’alto numero di donne in età fertile, grazie al crescente numero di donne immigrate e alle donne italiane figlie del baby boom, nate nel ventennio 1955-74. Dopo il 2010, però, anche se la fecondità non è poi variata di molto (1,34 figli per donna nel 2017 contro il massimo di 1,46 nel 2010), il numero di nati è drasticamente diminuito, raggiungendo 458 mila nel 2017, il minimo dell’Italia unita, a causa della diminuzione del numero di donne in età fertile (meno italiane e drastica diminuzione di arrivi di giovani straniere).

Ulteriore possibile diminuzione delle nascite

Se la fecondità resterà su questi livelli e non vi saranno nuovi flussi immigratori di giovani donne, il numero di nascite è destinato inevitabilmente a scendere, nel giro di un quindicennio, di altre 100mila unità, con un tasso di natalità appena del 6 per mille, con una nascita ogni due decessi, saldo naturale negativo per almeno 300 mila individui l’anno e invecchiamento della popolazione ancora più rapido di quello osservato nell’ultimo decennio (figura 1). Senza migrazioni, per ritornare nel 2030 ad avere 500mila nascite l’anno, sarebbero necessari 1,76 figli per donna.

Perché politiche pro-nascite?

Aiutare le coppie ad avere i figli che desiderano è un obiettivo importante, da molti punti di vista: perché oggi molte coppie che desidererebbero 2-3 figli, in realtà ne hanno 1-2, perché i bambini con più fratelli sono penalizzati dal punto di vista economico, senza avere alcuna responsabilità della scelta dei loro genitori, e perché in prospettiva un numero rapidamente decrescente di giovani metterebbe a repentaglio sia il nostro sistema produttivo sia il nostro welfare. Inoltre, è difficile immaginare replacement migration di portata tale da sostituire il mancato apporto delle nascite. Del resto, anche i programmi elettorali delle maggiori forze politiche per le elezioni del 2018 contemplavano questo obiettivo, e le ricette proposte differiscono in misura tutto sommato limitata: tutto ciò suggerisce una possibile convergenza verso misure pro-family finalmente significative.

Primo: correggere le diseguaglianze

Vanno innanzitutto corrette le storture del sistema di aiuti alle coppie con figli: oggi in Italia Robin Hood agisce alla rovescia, perché gli assegni familiari vengono erogati quasi esclusivamente ai genitori con lavoro dipendente, e le detrazioni per i figli a carico solo a chi è in grado di pagare le tasse. Paradossalmente, restano quindi esclusi dai due maggiori benefici a favore delle coppie con figli coloro che ne avrebbero più bisogno, ossia i disoccupati, perché incapienti e non lavoratori dipendenti. Anche l’accesso ai nidi comunali per i bambini di età 0-2, non è quasi mai condizionato al reddito (che tuttavia rileva per determinare il livello della retta). Sempre per i nidi pubblici, la maggior sperequazione è fra il 20% dei bambini che riescono a entrarci, per cui la Pubblica Amministrazione versa 683 euro al mese (dato per il decennio 2008-17, comunicatomi dal Comune di Padova), e chi non ci entra, per cui la Pubblica Amministrazione non versa nulla. Altre sperequazioni riguardano poi le scuole per l’infanzia (bambini di età 3-5): in vaste aree del paese non vi sono scuole statali o comunali, e molti genitori non hanno altra scelta che ricorrere alle scuole paritarie, che – pur essendo sulla carta inserite a pieno titolo nel sistema pubblico di istruzione, e pur riscuotendo alti livelli di gradimento da parte dei genitori – costano alle famiglie ogni anno 1.200 euro in più rispetto alle scuole direttamente gestite dalla pubblica amministrazione (calcoli sempre riferiti al Comune di Padova: la retta mensile per una scuola per l’infanzia comunale è di 95 euro – quinta fascia, Isee di 11-16 mila euro – mentre per una scuola materna paritaria la retta si aggira attorno ai 200 euro, dato comunicatomi personalmente dalla Fism, Federazione Italiana Scuole Materne di Padova).

La correzione di queste storture sarebbe già molto, ma non sufficiente per convincere le coppie a realizzare senza remore le loro aspettative di fecondità. È innanzitutto necessario migliorare il clima generale socio-economico del Paese, affinché i giovani possano accelerare l’ingresso nella vita adulta ed affrontare in tempi congrui e con la necessaria serenità le scelte riproduttive. Qui non consideriamo questi (cruciali) aspetti, limitandoci ad approfondire i temi più direttamente connessi alla natalità.

Per un fisco amico delle famiglie con figli

Visto ciò che accade negli altri paesi sviluppati, è innanzitutto necessario modificare profondamente il regime fiscale, spostando risorse a favore delle famiglie con figli. I casi recenti della Germania (fecondità da 1,33 figli per donna del 2006 a 1,60 del 2016) e della Russia (da 1,30 del 2006 a 1,75 del 2016) hanno mostrato che i soldi contano, specialmente se vengono erogati in modo strutturale e per tutto il periodo in cui i bambini sono a carico dei genitori. Anche alcuni studi sull’Italia mostrano che, in qualche caso di erogazioni aggiuntive di reddito dovute a leggi regionali, la fecondità è aumentata in misura significativa, mentre è diminuita l’abortività. Per l’Italia la cosa più fattibile sarebbe concentrare tutte le diverse misure e i vari bonus in un assegno unico per i figli a carico, di misura decrescente con il reddito (o l’Isee) della coppia. Un’altra possibilità – di più complessa realizzazione – è seguire l’esempio francese, puntando sul quoziente familiare, ossia scalando verso il basso il reddito imponibile di una coppia al crescere del numero di figli. Misure di questo tipo potrebbero limitare sensibilmente le penalizzazioni economiche subite dalle coppie con figli. Tuttavia, bisogna essere consapevoli che si tratta di misure costose. Per erogare un assegno medio di 200 euro mensili a figlio, pur assorbendo tutte le misure attualmente in vigore (assegni, detrazioni, bonus…) ed escludendo le coppie ricche, sarebbero necessari otto miliardi di euro aggiuntivi ogni anno (ossia spostare mezzo punto di PIL sulle famiglie con figli, avvicinando l’Italia alla media europea). Come chiarirò fra poco, misure fiscali di questa portata hanno come premessa una profonda rivoluzione culturale.

Politiche di conciliazione

Oltre ai soldi, per trovare il coraggio di avere un bambino in più, le coppie avrebbero bisogno di servizi educativi per i figli a prezzi ragionevoli, essenziali anche per permettere con serenità a entrambi i genitori di lavorare per il mercato. Soluzioni del tipo “nidi pubblici gratuiti per tutti” sono solo slogan, perché economicamente irrealizzabili. A mio avviso – oltre a continuare a dotare i comuni di nidi pubblici o privati convenzionati – vanno messe in campo soluzioni caso per caso, in linea con le tradizioni e le risorse locali. Due esempi possono aiutare a comprendere cosa intendo dire.

Nel Veneto, dove più del 60% delle scuole per l’infanzia sono paritarie, la proporzione di bambini di età 18-35 mesi frequentanti il nido è stata innalzata in modo decisivo finanziando l’istituzione delle Sezioni Primavera, dove la scuola per l’infanzia paritaria accoglie i piccini con costi molto inferiori rispetto ai nidi pubblici, pur essendo il finanziamento condizionato al rispetto di elevati standard strutturali e di personale. In provincia di Trento da anni è consolidato il finanziamento pubblico ai genitori che mandano i figli presso le “mamme di giorno” (tagesmutter), signore che accolgono nella propria casa 2-4 bambini, organizzate fra loro in associazione di impresa. Si tratta in questo caso dell’applicazione italiana di attività di cura presenti da tempo in paesi come il Regno Unito e la Germania. Un’altra idea interessante è quella di erogare a tutte le madri la cifra che oggi viene versata solo a quante prolungano l’aspettativa post-partum oltre il periodo obbligatorio, ricevendo dall’Inps, per sei mesi, il 30% dello stipendio. Questa misura potrebbe agevolare il pagamento di un nido o di una baby-sitter per le donne che vogliono tornare presto a lavorare.

È anche questione di cultura

Infine, questi ragionamenti vanno inseriti all’interno di un contesto più generale. L’Italia da trent’anni è uno dei paesi al mondo con la più bassa fecondità, in compagnia degli altri paesi dell’Europa del Sud e dei paesi ricchi dell’Estremo Oriente. Nessuno degli svariati governi che si sono succeduti in tutti questi paesi è riuscito a invertire questo trend, poco influenzato, peraltro, dai cicli economici e dai cambiamenti di costume. Ciò accade mentre in altri paesi ricchi, le coppie hanno effettivamente il numero di figli che desiderano. Evidentemente, c’è qualcosa di profondo che frena gli italiani, gli spagnoli, i portoghesi, i greci, i giapponesi, i cinesi delle aree urbane, i coreani a realizzare le loro aspettative di fecondità, e che non spinge i loro governi a mettere in atto consistenti misure pro-family. Alcuni demografi hanno suggerito che il problema sta nella grande forza dei legami fra genitori e figli: in questi paesi i genitori riverserebbero nei figli altissime aspettative e grandissime risorse psicologiche e materiali. In questi ricchi paesi a legami familiari forti, la ricerca del figlio di “alta qualità” impedirebbe di averne più di uno o due, mentre la pubblica opinione considererebbe i figli una faccenda privata, piuttosto che qualcosa di interesse pubblico (per approfondire si veda il libro che ho recentemente scritto con Maria Castiglioni: La famiglia è in crisi. Falso!, edizioni Laterza 2017).

Del resto, anche nella recente campagna elettorale italiana la questione degli aiuti alle famigli con figli non ha occupato il centro del dibattito pubblico: si è preferito parlare di pensioni, reddito di cittadinanza e flat tax. Tutte cose che con i figli c’entrano poco. Quindi, anche se l’Italia realizzasse una fiscalità realmente di vantaggio per le famiglie con figli e servizi utili per conciliare il lavoro di cura con quello per il mercato, non ci sarebbe garanzia di un automatico incremento delle nascite. Le coppie potrebbero utilizzare queste maggiori risorse non per avere un figlio in più, ma per innalzare la “qualità” dei figli già nati (o dell’unico figlio già nato). Nel progettare e attuare queste politiche si dovrebbe tener conto anche di questo rischio di contesto.

Tuttavia, vale lo stesso la pena di provare a combattere la denatalità. Infatti, come già detto, vi sono segnali che anche da noi le coppie rispondano a condizioni più favorevoli, trovando il coraggio di mettere al mondo qualche figlio in più. Inoltre, tutte le misure qui illustrate vanno in direzione di ridurre sperequazioni e privilegi. In un paese disuguale come l’Italia, non sarebbe cosa da poco.

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