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L’equilibrista: il lavoratore in bilico tra flessibilità e stabilità

Rifkin sostiene che lo sviluppo tecnologico conduce alla fine del lavoro e, conseguentemente, a problemi di occupazione. Donkin, invece, ritiene che ciò possa rappresentare un’opportunità per rompere i cliché tradizionali (il posto fisso, la presenza, l’orario) in favore di un nuovo modo di lavorare, Jeffrey Sachs stima nei prossimi 15 anni una perdita del 47% degli attuali posti di lavoro per sopraggiunta automatizzazione, mentre l’Economist – nell’articolo “workers on tap” (ovvero lavoratori alla mescita)1 – nota come l’organizzazione e la tecnologia consentano nuove possibilità di lavoro, ma con luci e ombre.

L’erosione dell’occupazione, sia in termini di quantità che di qualità, è continua. Si pensi al fenomeno della sharing economy di Uber o alla on demand economy di Ebay e Amazon, o ad alcuni camouflage del lavoro come il franchising, a certe modalità di collaborazioni, allo stage, al lavoro condiviso; al lavoro-volontario (un ossimoro pericoloso). Tutte fattispecie concorrenti dell’occupazione ordinaria. Progressivamente sfuma l’identità del datore di lavoro, si confonde il prezzo con il rimborso, si sovrappongono gli status (occupato, in cerca di lavoro, studente,…) e i ruoli (cliente, socio).

Luci e ombre delle nuove modalità di lavoro

Innanzi tutto, le nuove opportunità di lavoro che si stanno profilando (la c.d new economy) vanno valutate positivamente o negativamente? Infatti, se dal lato degli utenti queste trasformazioni tendono a ridurre i costi, sul versante del lavoro, almeno nel breve periodo, comprimono le tradizionali forme di occupazione. Sembra ripresentarsi il dilemma che viviamo con la scienza: come comportarsi quando il progresso tecnologico può venire utilizzato in modo distruttivo? Si possono governare questi processi o è un’inutile lotta ai mulini a vento?

Emergono, inoltre, importanti questioni fiscali, previdenziali e di stima dell’occupazione, di cui la statistica ufficiale dovrà tener conto perché potrebbe, ad esempio, ridimensionare il fenomeno dei neet. In altre parole, con l’affermarsi del dependent self-employed (lavoro autonomo debole), americani ed europei scoprono, 20 anni dopo di noi, il fascino sinistro della para-subordinazione e, più in generale, della para-occupazione. Si assiste a una beffarda italianizzazione del lavoro occidentale.

Le implicazioni politiche sono rilevanti. Questa occupazione ibrida darà luogo a un nuovo paradigma sociale? La nostra Costituzione è fondata sul lavoro: se il lavoro cambia natura, mutano pure le relazioni e le logiche che sostengono il patto sociale e, quindi, l’individuo sarà solidale con un diverso sistema di riferimento, e viceversa. Modificare il sistema valoriale comune implica un cambiamento rilevante e pervasivo tra i cittadini, gli operatori economici e le istituzioni. Di più: è giusto chiedere al cittadino di essere un equilibrista? Gallegati ammonisce: “L’economia dev’essere funzionale all’umanità, e non viceversa”. I diritti e i servizi sono sempre meno esigibili, s’intravede già uno Stato Quantico?2 Di questo tenore il recente libro The turning point di Stiglitz: “serve una svolta, vanno riscritte le regole del mercato… disuguaglianze e sviluppo non vanno insieme”.

Precarietà senza sostegni

Il sotto prodotto principale di questa riconversione è la precarietà, che da noi è afflitta da un ulteriore pregiudizio: è vista come un handicap economico e, come tutte le disabilità, è amplificata dal contesto infrastrutturale. Da questo punto di vista il free-lance anglosassone ha uno status migliore rispetto al nostro collaboratore, giacché per avere un ruolo sociale, gli si chiede una “solida reputazione di buon pagatore” e non di avere un “buon lavoro”. Il welfare, quindi, va ripensato per dare continuità più al reddito che al lavoro. Per innovare il sistema il governo fa bene a contrastare i contratti precarizzanti e a incentivare l’occupazione standard, ma forse non basta. Se il sistema non si adatta è necessario che lo Stato sostenga le credenziali di chi ha un contratto a tutele crescenti, quasi fosse un prestatore di ultima istanza. Infatti, se il contratto a tutele crescenti, che rappresenta un ingente costo per lo Stato, non consente di avere prestiti, curarsi o avere un figlio, allora non ha comunque raggiunto l’obiettivo di sradicare l’incertezza dalle spalle dei giovani. Potremmo sostenere che più che di lavoro standard a tempo indeterminato c’è bisogno di un termine per il lavoro non standard. Così com’è configurato non può essere che una stagione della vita.

La querelle tra Renzi e l’Associazione Bancaria (ABI) sulla (difficile) concessione di mutui a chi ha un Contratto a Tutele Crescenti e il dibattito in corso sulla platea dei senza lavoro cui dare un reddito minimo, oltre che le innumerevoli proposte di legge (dal reddito minimo presentato dal Movimento 5 Stelle, all’iniziativa popolare per un reddito minimo garantito, al reddito minimo di inserimento proposto dal Partito Democratico, alla sperimentazione della Lombardia…) sono le avanguardie del riassetto dell’ambiente socioeconomico e delle istituzioni al lavoro prossimo venturo.

L’equivoco di fondo da noi è stato credere che la flessibilità organizzativa si possa ottenere solo con la flessibilità contrattuale, cioè che una quota di lavoro atipico sia necessaria (fisiologica). Questa soluzione semplicistica non solo comporta scorie sociali (precarietà e bassa natalità) ed economiche (crisi fiscale e produttività) ma è di dubbia efficacia, come ha sostenuto nel recente World Economic Outlook il Fondo Monetario “il livello di regolamentazione del mercato del lavoro non ha evidenziato correlazioni statisticamente significative con la produttività complessiva”. Le determinanti della crescita economica sono sempre le stesse: spesa per investimenti, ricerca e sviluppo, competenze dei lavoratori e concorrenza nel mercato.

Sicurezza e stabilità: l’opinione degli Italiani

Schermata 2015-06-03 alle 09.49.26Qual è l’opinione degli italiani circa la possibilità di modificare la relazione tra “cittadino e lavoratore”. Attraverso l’Indagine Isfol Plus si sono somministrati “quesiti diretti” in grado di misurare sia la domanda di stabilità (“Sarebbe interessato a convertire il Suo attuale rapporto di lavoro in un contratto a tempo indeterminato?”) che di sicurezza (“Lei preferirebbe avere 50€ in più al mese o 800€ al mese in caso di perdita del lavoro?”). La domanda di stabilità (Figura 1), è intorno al 60% ma tra i “dipendenti a termine” è all’80% e per i “finti autonomi” siamo al 70% – quasi fossero sostituti perfetti – spia di un utilizzo improprio di questi lavoratori. Sul versante della sicurezza, l’intensità è ancora maggiore e omogenea: segnale che c’è una diffusa avversione alla cosiddetta. “società del rischio” (Beck) come confermano le politiche conservatrici sulle rendite3

Visto il forte (e legittimo) desiderio di stabilità lavorativa, contrariamente a chi crede che difendere i diritti e una esistenza decorosa sia un comportamento conservatore, si ritiene invece che rappresenti l’altra faccia della mano invisibile di Smith: rivendicare un buon trattamento lavorativo è una difesa della civiltà esattamente come agire nel proprio interesse concorre al progresso collettivo.

Note:

1 – the economist – workers on tap

2 – Nel merito – lo stato quantico di Emiliano Mandrone

3 – Eticaeconomia – Sempre più eredità, le ricchezze e le imposte di successione di Teresa Barbieri

Fonte grafico – Isfol Plus 2014 open data delle ricerche Isfol

le opinioni espresse dall’autore non impegnano l’istituto d’appartenenza

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