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Le politiche demografiche: difficili, ma necessarie

La debole demografia, dell’Italia e di molti altri paesi, richiede la costruzione di politiche che sono difficili da disegnare e da realizzare. Ne discute Gianpiero Dalla Zuanna che nel primo di due interventi si sofferma, in particolare su due aspetti: la difficoltà di individuare obbiettivi condivisi, e la scarsa conoscenza del legame reale fra politiche e comportamenti demografici.

Le politiche demografiche sono difficili da progettare e da attuare, per almeno tre motivi.

Difficile definire l’ottimo di popolazione

Il primo riguarda gli obiettivi che queste politiche dovrebbero porsi. Anche se i demografi ci hanno provato, è molto difficile definire l’ottimo di popolazione, ossia “quel livello di popolamento nel quale il benessere individuale è massimo, e verrebbe diminuito frazionalmente sia dall’aggiunta sia dalla diminuzione di un individuo”. Questa definizione di Massimo Livi Bacci (Enciclopedia Treccani delle Scienze Sociali del 1996, voce “Popolazione”) può essere estesa, sostituendo “quel livello di popolamento” con “quella proporzione di giovani o di anziani”, “quella proporzione di stranieri”, “quel numero di nascite” e così via. Infatti, è molto difficile definire un chiaro legame funzionale fra il benessere individuale e i parametri demografici. Il benessere individuale, poi, è qualcosa di molto complesso. Ad esempio, dal punto di vista materiale, per una coppia avere figli è insensato: è stato calcolato che, in Italia, un figlio in più costa 150-200 mila euro fino a quando il figlio stesso inizia a lavorare. Tuttavia quasi tutte le coppie italiane, se almeno un figlio non arriva, diventano infelici. Inoltre, la definizione di Livi Bacci andrebbe estesa, perché oltre al benessere individuale va considerato anche il benessere collettivo, che non è dato solo dalla somma di tanti benesseri individuali. Ad esempio, se andare presto in pensione viene dai più percepito come benessere individuale, a livello collettivo una bassa età pensionistica, innalzando il debito pubblico, è certamente una iattura anche per i neo-pensionati, che si vedono tagliare la spesa sanitaria e i fondi per asfaltare le strade e per la cura del verde pubblico.

Questo esempio richiama un ulteriore problema, di sfasamento temporale: ciò che oggi è effettivamente percepito come benessere individuale (andare presto in pensione) può trasformarsi, col tempo, in malessere individuale e collettivo (il fardello del debito caricato sulle spalle delle giovani generazioni). Sergio Della Pergola – il demografo italo-israeliano che nel 2004 suggerì a Sharon il ritiro da Gaza, convincendolo che per Israele era demograficamente insostenibile occupare quell’affollatissimo territorio – una volta mi ha detto: “il problema è che i demografi ragionano sugli anni, i politici avendo in mente il telegiornale delle otto”. Generalizzando, poiché la demografia ha spesso tempi lunghi, il suo rapporto con la politica dovrebbe essere all’insegna dell’etica della responsabilità: secondo Max Weber le scelte politiche non dovrebbero basarsi tanto sui principi assoluti, quanto piuttosto sulla previsione delle conseguenze delle scelte stesse. Ma non tutti i politici sanno chi è Max Weber, e in pochi seguono i suoi saggi consigli.

Il fascino pericoloso dei principi assoluti

Il secondo problema riguarda sempre gli obiettivi, che quasi sempre, nelle politiche di popolazione, sono imbevuti di quei principi assoluti che – come abbiamo appena visto – per concepire politiche efficaci dovrebbero invece restare sullo sfondo. Da un lato, questi principi possono essere profondamente errati, ma possono lo stesso diventare maggioritari, anche grazie ad efficaci azioni di propaganda o a meccanismi di psicologia collettiva vecchi come il mondo, come quello del capro espiatorio. Accade quindi che in tutti i paesi europei, con l’eccezione della Svezia, la gente sia convinta che gli stranieri sono molti di più rispetto a quelli effettivi, e che una signora residente in un paesino delle Dolomiti mi abbia detto senza remore: “non so come fate a resistere a Padova con il caldo, le zanzare e gli immigrati”, anche se la vita della sua famiglia non è mai stata minimamente scalfita dall’immigrazione. Oppure, al contrario, alcuni sostengono che non c’è alcun legame fra delinquenza e immigrazione, o che tutte le frontiere dovrebbero essere abolite, senza preoccuparsi delle conseguenze di queste scelte. Se questi principi persistono nel tempo, rischiano di orientare politiche sbagliate, ossia dannose per il benessere individuale e collettivo di oggi e di domani.

Inoltre, i principi assoluti possono essere fra loro contraddittori e incompatibili, in misura tale da indebolire le conseguenti decisioni politiche. A lezione faccio un gioco con i miei studenti, chiedendo loro: “secondo voi è giusto che le famiglie con più figli paghino meno tasse?” e tutti rispondono di sì. Poi li incalzo chiedendo: “ed è giusto che chi è senza figli paghi più tasse?” e regolarmente più della metà mi risponde di no. A ben vedere, questi problemi riguardano tutto ciò che ha a che fare con scelte politiche complesse per cui, come ebbe a dire George Bernard Shaw, c’è sempre una soluzione semplice, ma sbagliata. Certamente le scelte politiche concernenti i grandi temi della demografia – nascite, migrazioni, famiglia, salute – sono tutt’altro che semplici.

Ci sono più cose in cielo e in terra che nella nostra immaginazione

Una volta definiti gli obiettivi in modo ragionevole e sufficientemente condiviso, il terzo problema è che spesso è molto difficile prevedere il legame reale fra politiche e comportamenti demografici. Questo accade specialmente quando questo problema si sovrappone a quello precedente, ossia quando l’oggettiva complessità dei meccanismi comportamentali si intreccia con il desiderio di agire in base a principi assoluti, piuttosto che seguendo l’etica della responsabilità, ossia senza ragionare bene sulle conseguenze delle proprie scelte.

In un lavoro non ancora pubblicato, presentato alla conferenza dei demografi australiani di Darwin nel luglio del 2018, Peter McDonald ed Helen Moyle mostrano come nell’ultimo decennio in Australia la fecondità è nettamente diminuita per i ceti sociali più deboli, mentre quella dei più ricchi è lievemente aumentata. Senza azzardare meccanismi di causa-effetto, i due demografi sottolineano che questi andamenti si sovrappongono a un netto cambiamento della politiche pro-family australiane: con l’avvento al potere della sinistra, si è passati da finanziamenti incondizionati alle coppie con figli a finanziamenti alle madri che continuavano a lavorare. Tuttavia, il tasso di attività delle donne più povere e meno istruite è nettamente più basso rispetto a quello delle donne più ricche e meno istruite (in Australia come in Italia), e il mercato del lavoro australiano (anche se ben più florido e dinamico di quello italiano) non è stato in grado di assorbire le donne meno dotate culturalmente ed economicamente: nel 2016, secondo i dati del Censimento, il tasso di occupazione in Australia era del 77,5% per le donne laureate e del 46% per le donne con meno di 12 anni di istruzione (età 35-39). Di conseguenza, le coppie più povere e meno istruite, nettamente sfavorite da questo cambiamento di politiche, hanno difeso il loro reddito limitando la fecondità. Un’azione riformatrice ispirata a un principio “di sinistra” (è buono e giusto che le donne lavorino), in realtà ha sortito un effetto Robin Hood alla rovescia: un caso interessante di eterogenesi dei fini.

Questi tre problemi dovrebbero ispirare grande prudenza a chi vuole costruire politiche demografiche. Tuttavia, non possono essere una scusa per evitare di progettare e mettere in atto azioni pubbliche che abbiano a che fare con la demografia. Perché ci sono numerose questioni demografiche che non possono risolversi da sole (elenco incompleto per l’Italia: bassa natalità, migrazioni, invecchiamento…). Quindi, le politiche demografiche sono difficili, ma necessarie.

Leggi anche: il Mulino e Neodemos, e il dibattito sulla questione demografica.

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