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I costi sociali nascosti nel pugno duro sull’immigrazione

Tra gli obiettivi delle riforme promosse dal Ministero dell’Interno in tema di immigrazione, vi è certamente quello di stringere i cordoni dell’asilo e della borsa: niente più permessi di soggiorno per motivi umanitari e tagli drastici all’accoglienza dei richiedenti asilo dalla fine del 2018. Per Irene Ponzo i modesti risparmi realizzati dallo Stato saranno pagati dal Paese in termini di aumento dell’irregolarità e di depauperamento del sistema di accoglienza.

L’aumento degli irregolari

Il Decreto Immigrazione e Sicurezza del 5 ottobre 2018 (D.L. 113/2018) ha soppresso i permessi di soggiorno per motivi umanitari che, dalle Primavere Arabe in poi, sono stati la principale forma di protezione riconosciuta in Italia. Di conseguenza, la quota di dinieghi, ossia di rifiuti di qualsiasi forma di protezione con la conseguente caduta nell’irregolarità, è aumentata fino a superare l’80% (Fig. 1). Va detto però che i provvedimenti negativi erano in aumento già prima dell’adozione del Decreto di ottobre, apparentemente per effetto della Circolare del Ministero dell’Interno del luglio 2018, che invitava a dare un’interpretazione più stringente dei motivi di ordine umanitario .

Si accumulano i segnali di conseguenze negative del Decreto anche per molte comunità locali. Per esempio, con l’arrivo dei richiedenti asilo in diverse aree interne, rurali e montane, si sono avviate imprese sociali per il recupero del territorio: dalla sistemazione dei muretti a secco e dei sentieri, alla pulizia dei corsi d’acqua e delle aree boschive per prevenire alluvioni e incendi, alla valorizzazione delle colture tradizionali che rischiano di essere soppiantate dalla produzione destinata alla grande distribuzione. I richiedenti asilo impiegati in queste attività e convocati dalle Commissioni dopo l’adozione del Decreto hanno elevate probabilità di divenire irregolari, anche quando siano in grado di mantenersi, se a loro si applicherà la nuova, più stringente normativa¹. Di conseguenza, non potranno continuare a svolgere quelle attività, che sembrano perciò avviate a chiudere i battenti: trovare persone, italiane o straniere, disposte a trasferirsi in quelle aree e svolgere quel tipo di lavori, per i quali quei richiedenti asilo sono stati appositamente formati grazie ai finanziamenti dell’accoglienza, è improbabile. Il cospicuo investimento di energie fatto da questi territori andrà sprecato. In quale forma potranno contribuire alla nostra società queste persone, una volta perso il permesso di soggiorno, è poi difficile da immaginare.

L’altra questione che sta producendo uguale se non maggiore preoccupazione riguarda chi il permesso per motivi umanitari ce l’ha e dovrebbe rinnovarlo, ma non può perché questo tipo di permesso è stato soppresso. Si tratta di un bacino ampio di persone: dall’avvio della cosiddetta “crisi migratoria europea” nel 2015, la quota annua dei richiedenti asilo che ha ricevuto questo permesso ha oscillato tra il 21% e il 28%.

Non potendo rinnovarlo, si tenta di convertirlo in permesso per lavoro². Per ottenere quest’ultimo, però, bisogna dimostrare di lavorare almeno un certo numero di ore e di guadagnare un certo reddito. Pertanto, anche chi magari un lavoretto ce l’ha e ci paga l’affitto di un appartamento condiviso con altre due o tre persone, corre il forte rischio di divenire irregolare.

Diventare irregolare significa non poter stipulare un contratto di affitto o di lavoro e non essere più registrati da nessuna parte, né in Comune, né in Questura, con buona pace della sicurezza collettiva che ha come prerequisito la conoscenza da parte dello stato di chi vive in Italia. Nella stragrande maggioranza dei casi, infatti, questi “irregolarizzati” dal Decreto Sicurezza continueranno a vivere in questo paese, dato il numero molto basso di rimpatri, attestato dai dati dello stesso Viminale: 636 rimpatri nel gennaio 2019, una cifra non molto diversa dalla media mensile degli ultimi anni e comunque irrisoria se si considera che l’ISMU ha stimato che al 1° gennaio 2018 gli stranieri irregolarmente presenti in Italia fossero circa 530.000.

I tagli e i licenziamenti nel sistema di accoglienza

Parallelamente al Decreto Sicurezza di ottobre è stato adottato un nuovo schema di capitolato di gara per la gestione dei centri governativi CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria) che prevede la soppressione delle attività a sostegno dell’integrazione, inclusi i corsi di italiano e la tutela legale, e una riduzione della spesa massima pro-capite per diem da 35 euro a una forchetta compresa tra i 19 e i 26 euro ( Il Decreto Immigrazione e Sicurezza che separa accoglienza e integrazione: una riforma dai piedi di argilla Neodemos Ottobre 2018).

Le Prefetture, responsabili di gestire le gare a livello provinciale, si stanno muovendo in ordine sparso: alcune hanno mantenuto o prorogato i vecchi capitolati; altre, scaduti i contratti con gli enti gestori, hanno adottato il nuovo schema di gara, con notevoli disguidi. A detta di alcuni gestori, infatti, certe spese ineludibili non sono previste nel capitolato del Ministero quali, ad esempio, quelle connesse alla gestione amministrativa, agli oneri in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, allo smaltimento dei rifiuti, alle eventuali visite specialistiche ed esami diagnostici di cui i richiedenti asilo potrebbero avere bisogno, alla scolarizzazione e ai servizi educativi per eventuali minori presenti nei nuclei familiari. A oggi, sembra che le Prefetture stiano verificando questi aspetti col Ministero dell’Interno, mentre gli enti gestori rimangono nell’incertezza.

Pressoché tutti i gestori dei CAS regolati dal nuovo capitolato di gara hanno licenziato una quota rilevante di operatori, non essendo più in grado di pagarli: da un monitoraggio svolto dalla CGIL emerge come circa 5mila lavoratori siano già stati interessati da procedure di esubero e la cifra complessiva attesa si aggira intorno ai 18mila; stime simili vengono fornite da Oxfam Italia.

Diverse organizzazioni stanno valutando se partecipare o meno alle gare di appalto delle Prefetture perché le nuove condizioni non consentono di proseguire con i modelli di intervento dimostratisi più positivi per i richiedenti asilo e le comunità locali, basati sull’accoglienza dispersa sul territorio e l’apprendimento della lingua italiana, di un mestiere e delle competenze sociali necessarie a vivere in questo paese: dato l’abbassamento della spesa pro-capite giornaliera ammessa, solo se si fanno economie di scala gestendo molti posti letto è possibile stare in piedi, mentre diverse organizzazioni avevano optato per i “piccoli numeri”; inoltre, dopo aver maturato in questi anni professionalità e competenze, alcuni non vogliono limitarsi a offrire vitto e alloggio, quasi fossero semplici albergatori, senza poter realizzare percorsi volti all’integrazione.

In alcuni casi, come nella provincia di Reggio Emilia, i gestori si sono uniti nel rifiuto di partecipare alla gara della Prefettura, che è così andata deserta. Di conseguenza, la riforma dell’accoglienza è una gatta da pelare non solo per i richiedenti asilo e per i giovani neo-disoccupati di questo settore, ma anche per le stesse Prefetture del Ministero dell’Interno che sono chiamate a dare in gestione un certo numero di posti letto e non è detto che riescano a farlo alle nuovi condizioni.

Dopo le elezioni europee del 26 maggio, non si può negare che le scelte del governo sull’immigrazione riscuotano consenso tra gli elettori. I costi sociali delle politiche che regolano fenomeni complessi come questo sono peraltro difficilmente percepibili, non per incapacità dei cittadini, ma per il tempo necessario a venire a capo di ogni intricata questione che interessa le società contemporanee, compresa l’immigrazione. Chi è chiamato a gestire questi fenomeni, però, dovrebbe elaborare risposte fondate sull’attenta valutazione delle conseguenze. Il rischio, altrimenti, è che il pugno duro sull’immigrazione finisca per colpire anche le persone a cui si volva tendere la mano.

Note

¹ A questo proposto si segnala la sentenza della Corta di Cassazione 4455/2018, la quale stabilisce che “il parametro dell’inserimento sociale e lavorativo dello straniero in Italia può essere valorizzato come presupposto della protezione umanitaria, non come fattore esclusivo”. In sintesi, avere un lavoro contava, anche se da solo non bastava. Con le fattispecie di permesso introdotte col Decreto Sicurezza del 2018 diventa invece impossibile tenere conto di questo aspetto.

²Le alternative al permesso per lavoro sono un permesso per casi speciali, estremamente difficile da ottenere, o un permesso per protezione speciale, che è però destinato scadere senza essere convertibile in altro permesso.

Fonte figura 1Ministero dell’Interno.

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