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Ferragosto, mamma mia non ti conosco!

In un recente film (“Pranzo di Ferragosto”, di Gianni di Gregorio), premiato al festival del cinema di Venezia, emergono alcune tessere di una condizione adulta su cui può essere interessante riflettere.
 
Solo la trama di un film?
E’ la storia di Gianni, un uomo di mezza età, figlio unico di madre vedova, che si trascina, con qualche difficoltà economica, fra faccende domestiche, cure familiari e osteria. Alla vigilia di ferragosto a Trastevere sono rimasti in pochi. Il protagonista e l’anziana mamma vivono in un vecchio stabile che richiede costose manutenzioni che loro non hanno ancora pagato; l’amministratore lo sa e propone a Gianni uno scambio: saldare i debiti in cambio di ospitalità alla propria madre. In realtà le ospiti saranno due, perché anche la zia Maria è sola (“è buona, un po’ persa, ma dove la metti resta”).
Le preoccupazioni per la strana situazione aggravano certi disturbi cardiaci e Gianni decide di consultare il medico di famiglia. L’indomani è ferragosto e anche per il medico, di turno in ospedale, l’accudimento della mamma è un’emergenza. Che fare? Recuperare un altro letto e cominciare a predisporre soluzioni personalizzate alle quattro anziane signore: si, perché ognuna si porta il proprio pezzetto di mondo anche in quella sospensione estiva.
In un’atmosfera fra il trasognante e l’opprimente si vedono le mani di Gianni, sempre salde sul bicchiere di vino, stendere lenzuola, affettare cipolle, spostare televisori, accarezzare teste, preparare tavola, rimboccare coperte, servire pietanze, chiudere porte, somministrare medicine, abbandonarsi…..
Il pranzo di ferragosto è deliziosamente cucinato, si brinda con allegria: l’accordo è che nel pomeriggio tutto questo finirà. Ma perché così presto? Qualche banconota, uscita dalle borsette delle anziane signore, convincerà Gianni a prolungare la festa?
Un affresco convincente di una situazione che molte donne e uomini di mezza età già vivono.
L’allungamento della durata della vita è tale che non stupisce che gli attuali cinquantenni abbiano in maggioranza ancora uno o entrambi i genitori viventi.
 
Genitori viventi in un campione di 1000 individui fra i 50 e i 60 anni, residenti in Piemonte, per sesso e classe d’età (valori %)
 

          Totale                                                      Sesso
  Maschi             Femmine
Classi di età
     50-54                 55-59
           
SI        57.8             54.0   63.9   67.8                     45.8
   – Si, entrambi      16.2                        12.9      21.4      21.6        9.8
   – Si, la madre      37.2                      36.6      38.2      41.4      32.1
   – Si, il padre        4.4       4.5        4.3       4.8       3.9
NO   42.2   46.0   36.1   32.2   54.2
Totale 100.0 100.0 100.0 100.0 100.0

Fonte: Ires Piemonte[1]
 
Adulti intenti a gestire esistenze complicate da una molteplicità di ruoli che probabilmente si prolungheranno negli anni futuri: gli impegni del lavoro, la vita di coppia, la cura dei figli (spesso anche il mantenimento economico), dei nipoti e genitori anziani, l’aggiornamento e l’investimento in formazione.
Anziché avviati a prendere posto nel cosiddetto “nido vuoto”, uomini come Gianni e soprattutto le donne di mezza età reggono e vivono una fase di pesante sovraccarico di attività e di responsabilità che neppure il film è riuscito a descrivere, dal momento che le necessità di cura della madre anziana sembrano rendere impossibile al protagonista mantenere un’occupazione e una vita relazionale e familiare propria (non parliamo di tempo per sé!).
Combinazione difficile soprattutto per gli uomini, in particolare se figli unici, con madre molto anziana di cui diventano i principali care-giver: un’entrata nella “carriera morale” dell’accudimento, tradizionalmente attribuita alle donne.
 
I risultati di due ricerche
Due recenti ricerche[2] portano in primo piano proprio queste complesse esistenze adulte: persone che affrontano nuovi compiti cercando adattamenti alle mutate circostanze di vita, provando a percorrere strade anche diverse da quelle sinora intraprese o anche solo immaginate nel lavoro, in famiglia, nel contesto esterno.
Se nel film l’impegno professionale del protagonista resta in ombra, nelle interviste emerge come il lavoro, oltre che una necessità (anche per concludere carriere professionali prolungate dalle recenti riforme previdenziali), diventi spesso un’ancora di salvezza, un luogo in cui mantenere relazioni,  reintegrare le energie spese nella complessa gestione delle cure di un genitore non più autonomo. Per le donne ancora di più, perché il lavoro da adulte ne fa apprezzare il segno di autonomia che ha impresso alle loro esistenze e le aiuta a fronteggiare con maggior equilibrio le esigenze di cura dei familiari. A coloro che hanno dovuto lasciarlo, a causa del peggioramento delle condizioni di salute di un genitore, capita di tenere aperti un desiderio, una disponibilità a tornare eventualmente in futuro nel mondo del lavoro, convinti che sia possibile compensare, quanto eventualmente perso in abilità professionale, con un aggiornamento, ma soprattutto con le competenze acquisite nella cura.
Proprio perché il lavoro è un elemento centrale della loro economia di vita, gli intervistati sono convinti che le aziende, a volte anche con piccoli accorgimenti organizzativi, potrebbero renderlo meno faticoso e più conciliabile con le loro responsabilità in ambito familiare; con l’esito, non secondario, di garantirsi una manodopera affidabile e competente.
 
La questione della conciliazione delle responsabilità familiari e del lavoro remunerato non riesce nel nostro paese ad acquisire una giusta rilevanza, in particolare quando le esigenze di cura riguardano anziani fragili.
 
Un modello italiano di cura
Dal punto di vista sociale la responsabilità principale della cura e del benessere degli individui (siano essi minori, adulti o vecchi) è delle famiglie, che rispondono con una complessa combinazione di risorse informali, gratuite o pagate, e formali, tuttora territorialmente disomogenee. Nei luoghi di lavoro, le domande di conciliazione stanno nella cornice delle risposte formali (quelle previste e regolate dalle leggi e dai contratti, che riguardano soprattutto la cura dei figli minori) e nelle “concessioni” a livello individuale e informale, ma sono eluse dai modelli organizzativi di impresa, e ignorate come domande di flessibilità reciprocamente vantaggiose.
Si conferma un modello italiano di gestione delle risorse umane che continua a basarsi su una tenace “specializzazione” per funzioni e fasi della vita con forti tratti di esclusività[3]: o si fa una cosa o se ne fa un’altra; un modello che consegna soprattutto ad un genere (le donne) e a certe fasi della vita (costituzione della famiglia e invecchiamento dei genitori) un pesante sovraccarico di responsabilità.
Eppure gli obiettivi europei della strategia di Lisbona prevedono un incremento proprio dell’occupazione di quei soggetti che sono i tradizionali care-givers delle persone anziane, ovvero le donne (il tasso di occupazione femminile dovrebbe crescere in Italia di 13 punti per passare dall’attuale 47% al 60%) e i cosiddetti “older workers” (tra gli over 55 il tasso di occupazione dovrebbe aumentare di quasi 20 punti per raggiungere l’obiettivo del 50%). Inoltre c’è da chiedersi se la conciliazione riguardi solo (!) la possibilità di mettere meglio in equilibrio responsabilità familiari e lavorative, e non anche la necessità di trovare tempo da dedicare ad altre dimensioni, altrettanto importanti per la qualità di vita, dentro e fuori i luoghi di lavoro. È del 2008 la ricerca della Fondazione di Dublino[4] che indica che le condizioni lavorative dovrebbero sempre di più incorporare gradi di compatibilità per consentire a chi lavora la contemporanea partecipazione ad attività di istruzione, formazione e alle attività di riproduzione e cura delle persone.
Se si consente a questi adulti di mezza età di rispondere con minor stress alle loro diverse responsabilità, si dà loro modo di investire anche nel proprio benessere e li si attrezza di opportunità per imparare dalla propria esperienza. Li si mette nelle condizioni di sperimentare da subito, e non da anziani, quelle pratiche di active ageing che li renderanno beneficiari delle risorse da loro stessi generate.


[1] I dati si riferiscono ad una survey su 1000 individui fra i 50 e i 60 anni, occupati-te e pensionati-te, residenti nella regione Piemonte, realizzata nel 2006 dall’Ires Piemonte. Anche nell’Indagine Multiscopo “Parentela e reti di solidarietà” l’Istat ha rilevato che, fra i 45 e i 54 anni, il 64.3% degli italiani ha la madre vivente ed il 61.4% il padre vivente (anno 2003).
 
[2] Ci riferiamo a: L. Abburrà, E. Donati, Nuovi cinquantenni e secondi cinquantenni. Donne e uomini in transizione verso nuove età, F. Angeli, 2008 e B. da Roit, M. Naldini (in collaborazione con E. Donati): Working and Caring for an older parent in Italy, Report for the Woups (Working under Pressure) Project,  First Draft,  2008.
[3] L. Abburrà, M. Durando, Il mercato del lavoro fra modelli di partecipazione e sistemi di qualificazione. Scenari per il Piemonte 2015, terzo Rapporto Triennale, IreScenari 2007/3.
[4] European Foundation For The Improvement Of Living And Working Conditions, Working conditions of an ageing workforce, Luxembourg, 2008.
 
 
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