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Egoismo e fecondità: una ricetta per salvare il mondo?

La sensibilità e l’interesse verso le tematiche ambientali e lo sviluppo sostenibile sono indubbiamente aumentate negli ultimi decenni nei paesi occidentali. Alle soglie dei 7 miliardi di abitanti, molti di noi considerano importante differenziare i rifiuti al fine di incrementarne il riciclaggio; nei media si sente parlare spesso di strategie per ridurre l’impatto ambientale; a livello politico non mancano le proposte per migliorare lo sfruttamento di fonti di energia rinnovabile; alcuni ambientalisti propongono di ridurre drasticamente i consumi ad esempio evitando di utilizzare l’aereo come mezzo di trasporto. Tuttavia, di recente è stata formulata una strategia ben più radicale per salvare il nostro pianeta: fare meno figli, a partire dai paesi più ricchi.

 

La mamma egoista

L’idea, che potrebbe configurarsi come la soluzione “definitiva”, è fin troppo semplice: ogni essere umano è un consumatore e i più grandi consumatori sono gli abitanti dei paesi ricchi. Ridurre il numero di consumatori non può che giovare alla salute complessiva del pianeta. Partendo dall’ipotesi che ogni individuo è responsabile del 50% delle emissioni di diossido di carbonio di un proprio figlio, del 25% delle emissioni del figlio del figlio, e cosi via, e utilizzando le previsioni ONU, Murthaugh e Schlax, in un articolo apparso nel 2009 sul Journal of Global Environmental Change sostengono che il risparmio potenziale che si ottiene riducendo il numero di figli appare enorme rispetto al risparmio ottenibile grazie ai cambiamenti nel proprio stile di vita. Gli autori hanno calcolato che per una donna statunitense la decisione di mettere al mondo un figlio comporta un aumento delle emissioni di circa sei volte quelle prodotte nell’arco di una vita: in media 9441 tonnellate di Co2 pari a 2550 voli aerei tra Londra e New York. Se la stessa donna decidesse di adottare comportamenti virtuosi guidando un’auto efficiente o addirittura privandosi dell’automobile, installando finestre, lampadine, elettrodomestici più efficienti, riciclando carta, vetro e metallo, potrebbe ridurre le sue emissioni di Co2 di (sole) 486 tonnellate. Se anziché considerare una statunitense considerassimo una abitante di un altro paese occidentale, si riuscirebbe a salvare qualche altro centinaio di tonnellate ma l’impatto resterebbe comunque considerevole.

 

“Too many? Why don’t you just kill yourself?”

L’articolo in questione è apparso a molti una provocazione e come tale ha solleticato non poco la stampa internazionale dopo la sua pubblicazione. La tesi è tanto più controversa quanto più si pensa che la dinamica demografica dei paesi occidentali registra una stagnazione demografica piuttosto che una crescita incontrollata (situazione, semmai, più vicina ad alcune aree in via di sviluppo). Come fa notare Oliver Burkeman dalle pagine del Guardian Weekly (13 febbraio 2010  http://www.guardian.co.uk/environment/2010/feb/13/climate-change-family-size-babies/print), il punto è che una politica tesa a limitare le nascite non riscontra il favore di nessuno. Per gli animi più conservatori questo si tradurrebbe in una invasione di immigrati; per i più religiosi aumenterebbe il rischio di un incremento nel numero di aborti; per gli individui più progressisti si tratta di una visione che tende a spostare inevitabilmente la responsabilità dei paesi ricchi, storicamente responsabili dei danni all’ambiente e al clima, ai paesi in via di sviluppo, la cui popolazione segue una crescita ben più rapida.

La storia ci ha insegnato che spesso le paure di inevitabili disastri a seguito di una crescita incontrollata della popolazione, da Malthus a Ehrlich, si sono poi rivelate ingiustificate, così come sono state spesso dannose le politiche di riduzione della fecondità a carattere coercitivo. Focalizzare l’attenzione sulle nascite come variabile da controllare è un vecchio vizio che, ancora una volta, potrebbe spostare l’attenzione da altri comportamenti, questi sì, davvero virtuosi, come quello citati in apertura. Bisogna però sottolineare che l’articolo di Murthaugh and Schlax non intende suggerire che l’unica via di uscita sia la riduzione della fecondità. Nelle loro conclusioni gli autori sottolineano che i cambiamenti nello stile di vita non sono solo importanti, ma essenziali al fine di una riduzione a breve termine delle emissioni dannose per l’ambiente. Il punto è che l’inevitabile effetto amplificatore dato dall’arrivo delle nuove generazioni impone che tali cambiamenti nello stile di vita debbano essere tramessi alle future generazioni e quindi mantenuti nel lungo periodo.

Resta tuttavia un dubbio: è più egoistico non avere figli, seguendo comunque il proprio stile di vita, oppure scegliere di avere una famiglia numerosa, contribuendo però ad aumentare l’impatto ambientale? Ad ogni modo, questo articolo e le reazioni che ha scatenato mostrano chiaramente che il dibattito sul controllo della crescita di una popolazione e in particolare sulla relazione tra popolazione e sviluppo sostenibile è ancora vivo e pieno di energia.

E per quanto riguarda l’Italia? La questione sembra quasi essersi risolta da sé, vista la bassissima fecondità registrata nel nostro paese. Un dubbio emerge: sarà mica che per una volta gli italiani si mostrano più virtuosi di altri? Chissà. Forse qualcuno potrebbe ringraziarci quando tra un secolo si scoprirà che le nostre scelte feconde hanno salvato il pianeta!

 

Per approfondimenti

P.A. Murtaugh e M.G.Schlax, 2009, Reproduction and the carbon legacies of individuals, Global Environmental Change, 19: 14-20.

 

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