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Come sarebbe un’’Italia senza immigrati?

… a un certo punto il giornalista mi interrompe e chiede: “Ma allora come sarebbe oggi l’Italia senza gli immigrati?”
Sul momento me la cavo (con mestiere, come si dice degli interventi un po’ scomposti ma efficaci di un vecchio terzino): “Molto diversa, senza alcuni problemi oggi evidenti – l’allarme sicurezza o la fatica dell’integrazione – ma con tanti altri squilibri, ad esempio sul mercato del lavoro”. L’intervista finisce, il giornalista si alza apparentemente appagato, ma la domanda continua a ronzarmi nella testa. Il fascino del ragionamento controfattuale. Come sarebbe l’Italia nello scenario “zero immigrazione”? Che cosa avrebbe in più, in meno, o di diverso?

 

L’esempio americano

Torna alla memoria un articolo che parlava di “A day without immigrants”, la protesta inscenata un paio di anni fa negli Usa da circa un milione di lavoratori immigrati, prevalentemente irregolari. La loro astensione simultanea dal lavoro aveva costretto alla chiusura temporanea stabilimenti di industrie alimentari, cantieri dell’edilizia, esercizi alberghieri e di ristorazione. I forti ritardi nelle consegne da parte dei piccoli trasportatori estesero i disagi anche agli altri settori produttivi. Le città americane con le maggiori comunità immigrate registrarono, quel giorno, una consistente diminuzione delle vendite al dettaglio.

Anche in Italia, i lavoratori immigrati sono concentrati in alcuni settori economici: in loro assenza andrebbero in sofferenza. Ad esempio, incontrerebbero difficoltà le nicchie dell’enogastronomia italiana di qualità, che di fronte alla carenza di manodopera non possono evidentemente giocare le carte dell’automazione o della delocalizzazione: dalla raccolta delle olive taggiasche (svolta da albanesi) alla cura delle vigne nelle Langhe (macedoni) fino alla mungitura per il parmigiano reggiano (indiani).

Pensiamo anche alle tensioni e ai maggiori costi nei settori dell’edilizia e della cantieristica, o ancora nella ristorazione e nei servizi turistico-alberghieri.

Senza immigrati andrebbe reinventato il modello italiano di assistenza agli anziani non autosufficienti: dietro ogni badante straniera oggi impiegata in Italia – si dice siano 700.000 – sta una famiglia che da sola non ce la fa. Per molte donne italiane (e forse anche per alcuni uomini) l’abbandono del lavoro retribuito sarebbe una scelta obbligata. I robusti tassi di occupazione indicati negli obiettivi di Lisbona si dimostrerebbero ancora meno raggiungibili. In compenso i prezzi relativi dei lavori pesanti e pericolosi, quelli accettati dagli immigrati, aumenterebbero al punto da far saltare la consuetudine, già oggi non sempre rispettata, per cui il lavoro fisico è pagato meno del lavoro intellettuale.

 

Non solo meno lavoratori: anche meno contributi, meno consumi, meno risparmi…

L’Inps sarebbe uno dei maggiori perdenti nello scenario “zero immigrazione”. In questi anni i contributi pagati dai lavoratori immigrati e dai loro datori di lavoro sono una vera e propria boccata di ossigeno per i malandati conti della previdenza italiana, anche perché le prestazioni da erogare agli immigrati sono ancora poche.

Un lavoratore immigrato è anche un consumatore e un risparmiatore. Senza immigrazione le banche italiane avrebbero circa un milione e mezzo di conti correnti in meno. Verrebbe meno parte della domanda di abitazioni, e con essa un sesto circa dei mutui immobiliari concessi, con conseguente effetto depressivo sul mercato. C’è poi la grande partita delle rimesse: senza l’immigrazione si esaurirebbe il maggior flusso di risorse con il quale l’Italia partecipa, indirettamente attraverso le persone che da noi lavorano, allo sviluppo dei paesi più poveri.

 

…e meno figli

E poi, ovviamente, non ci sarebbero nemmeno i figli degli immigrati: senza di loro le nascite dell’anno 2007 sarebbero scese, per la prima volta nella storia dell’Italia unita, sotto quota mezzo milione, meno della metà rispetto ai più prolifici anni sessanta. Sui banchi delle scuole italiane ci sarebbero quasi 600.000 alunni in meno, pari ad alcune decine di migliaia di classi: per molti insegnanti precari la prospettiva del passaggio in ruolo diventerebbe un miraggio lontano, e ne soffrirebbe il ricambio del corpo insegnante.

L’esercizio controfattuale potrebbe spingersi oltre. Agli effetti di mera sottrazione si potrebbero affiancare quelli di adattamento del sistema: ad esempio una consistente ripresa della mobilità interna a scapito delle regioni meridionali (invero qualche segnale in tal senso si sta già manifestando, anche con gli stranieri presenti). Ma è meglio fermarsi qui. In fondo, la conclusione si è già delineata: anche in Italia esistono luoghi – una filiera produttiva non delocalizzabile, una famiglia dove la rete di assistenza si scopre insufficiente, una scuola – in cui l’integrazione, silenziosamente, si sta realizzando.

La prossima volta che incontro quel giornalista devo ricordarmi di dirglielo.

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