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Bebè? Non troppo Bonus

La legge di stabilità per il 2015 propone l’ennesima riedizione di un bonus bebè, il cui copyright per il nostro Paese risale a Roberto Maroni. Il ministro al Welfare del governo Berlusconi lo introdusse dapprima per il 2004 (riservandolo a ogni figlio successivo al primo) e lo estese poi, per le famiglie con reddito inferiore ai 50mila euro, anche ai primogeniti per il 2005 e ai secondogeniti per il 2006. Si trattava di bonus un po’ razzisti, in quanto non andavano ai figli di extracomunitari, neppure lungo soggiornanti.

Non un grande effetto sulla fecondità
L’impatto sulla natalità di quei bonus, di 1000 euro per un solo anno, fu assolutamente trascurabile (Fig. 1).
L’edizione del bonus 2015 prevede un importo annuo di 960 euro, erogato ai nuovi nati, in quote mensili di 80 euro, fino al compimento del terzo anno di età, a condizione che il reddito cumulato dei genitori non superi i 90 mila euro. La scelta è criticabile sotto molti profili. In primo luogo, in Italia esistono già quattro strumenti di sostegno monetario a favore dei nuclei con figli: detrazioni per figli a carico, ulteriore detrazione per contribuenti con almeno quattro figli a carico, assegno al nucleo familiare, assegno per i nuclei con almeno tre minori. Si tratta di strumenti non coordinati fra di loro, che adottano diverse nozioni di nucleo familiare e criteri di valutazione della condizione economica molto diversi. Da molti anni se ne propone una unificazione e una migliore finalizzazione. Non mancano proposte in questo senso in Parlamento. Il bonus ne aggiunge un quinto, peraltro di importo marginale rispetto all’insieme degli altri (circa 500 milioni all’anno contro 14-15 miliardi) accentuando la frammentarietà, e l’inefficienza, del quadro complessivo. Si tratta inoltre di un intervento solo temporaneo, per il prossimo triennio, che rende ancora più incerto e casuale il quadro d’insieme.

E’ giusto dare (quasi) a tutti?
In secondo luogo, la soglia individuata per la prova dei mezzi serve solo ad escludere dal bonus le fasce molto alte di reddito. Lo strumento è quasi universalistico. Andrà per circa il 70 per cento del suo ammontare a famiglie con reddito medio o medio alto, laddove, per esempio, per usufruire dell’assegno per il terzo figlio occorre un Isee non superiore a circa 8900 euro (pari a un reddito familiare di circa 25.400 euro per famiglie senza alcun tipo di patrimonio). Non ci sarebbe di che stupirsi: sono vari i Paesi europei che hanno strumenti di tipo universalistico a sostegno della natalità e delle responsabilità familiari. Non si può però non ricordare che quei Paesi affiancano questo strumento a una misura, generalizzata, di contrasto alla povertà, che non esiste in Italia. In un Paese che sta per affrontare drastiche riduzioni della spesa pubblica, che potrebbero mettere a rischio anche la capacità degli enti locali di offrire servizi di sostegno, la scarsità delle risorse a disposizione richiede di definire con chiarezza le priorità. E quando si parla di minori la priorità deve essere data al contrasto alla povertà. L’Italia è infatti, da molti anni, uno dei paesi Ocse in cui più alta è la povertà minorile, e questo dato si è molto aggravato negli anni della crisi. (v. ad esempio il rapporto Unicef)

Ci sono modi migliori per lottare contro la povertà dei minori
I minori che vivono in povertà assoluta, che vivono cioè in una famiglia che non può permettersi di acquistare un paniere di beni e servizi sufficienti a garantire uno standard di vita minimamente accettabile sono, secondo i dati Istat riferiti al 2013, 1 milione e 434 mila. Il dato, impressionante di per sé, è in forte crescita, anche solo rispetto al 2012, quando i minori in questa situazione erano poco più di un milione. Non sono più, diversamente dal passato, le famiglie con tre o più minori a cadere in povertà. L’incidenza della povertà è cresciuta in modo drastico anche nelle famiglie con uno o due minori, passando dal 7,1 del 2012 al 10,2 per cento del 2013 per le prime e per le seconde dal 10 al 13,4. Se si vuole fare sul serio, è a queste famiglie che vanno indirizzate, prioritariamente, le scarse risorse a disposizione. E non ci si può accontentare del pure necessario aiuto economico. È necessario un sostegno più ampio, che coinvolga i Comuni, che affianchi al trasferimento monetario un percorso di inclusione attiva, che spinga all’assolvimento dell’obbligo scolastico (in un Paese in cui l’abbandono scolastico interessa ancora in media il 17 per cento dei ragazzi) e indirizzi a percorsi di riqualificazione professionale e reinserimento lavorativo gli adulti. Una misura di questo tipo, denominata Sia, Sostegno all’inclusione attiva, è stata avviata, per ora solo sperimentalmente, dal 2014 e aveva ricevuto un primo finanziamento nella precedente legge di stabilità. Non ha avuto e non ha l’impatto mediatico del bonus bebè, ma se il governo la sostenesse, dedicandole quanto meno i soldi che intende dedicare al bonus bebè, avrebbe sicuramente un impatto di lungo periodo molto più significativo, in termini sia di equità sia di efficienza, sulle famiglie con figli.  

(*) Articolo pubblicato il 25 ott. 2014 su “Il Garantista”

Per saperne di più
Fonte grafico – istat e serie storiche   

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