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Ancora sulla famiglia Se parlarne potesse servire …

Nel distratto zapping durante il pranzo domenicale la mia attenzione è attirata dalle parole “bassa fecondità”. In uno dei programmi pomeridiani si discute della situazione italiana: il precariato, le difficoltà dei giovani nel metter su famiglia e nell’aver figli. Mi fermo un attimo ad ascoltare anche per capire quale sia l’opinione delle persone su questi temi. Tutti concordi, esperti invitati e pubblico, nel dire che il problema principale in Italia è la mancanza di politiche sostanziali a favore della famiglia. È quello che gli studiosi, demografi compresi (su Neodemos, tra gli ultimi, Rosina e Dalla Zuanna), ripetono da anni. Il nostro paese ne esce davvero male e ancora peggio quando a parlare sono i nostri connazionali dall’estero (Francia e Germania), magnificando i sistemi di protezione sociale dei paesi di attuale residenza. Ma cerchiamo di riassumere con qualche dato cosa non funziona nel belpaese.
Poche risorse alle famiglie
Dalla figura 1 è possibile rilevare come l’Italia abbia il terzo valore più basso (dopo Spagna e Estonia) di spesa sociale destinata alla famiglia sul totale della spesa sociale (4,1%), ben al di sotto della media europea dell’8%. Il 62,3% della spesa sociale italiana è assorbito dalle pensioni, dato che può apparire “logico” se si pensa che l’Italia è il paese europeo con il più alto livello di invecchiamento demografico. Nonostante alla popolazione anziana siano destinate risorse ingenti non pare, però, che ciò alleggerisca il carico per le famiglie che, soprattutto in Italia, continuano a costituire l’elemento fondamentale della rete di sostegno agli anziani (Istat, 2006), in particolare di quelli non autosufficienti. In una sorta di circolo vizioso, l’eccessivo carico sulle famiglie per l’attività di cura agli anziani è una causa indiretta della bassa fecondità, poiché frena l’occupazione femminile che, invece, alla fecondità mostra di essere positivamente correlata (si veda Rosina e Dalla Zuanna).
Valutando l’incidenza della spesa sociale per la famiglia in termini di percentuale del PIL (figura 2), l’Italia conferma la sua posizione negativa, con solo l’1%, mentre in altri paesi europei, molti dei quali hanno, non a caso, una fecondità ben più alta della nostra, tale livello di spesa supera il 2,5%. Ancora, occorre considerare che il valore medio annuale che lo stato italiano destina a ciascuna famiglia è di soli 266 euro, contro un valore medio europeo di 466, e che il nostro paese ha anche assegni familiari tra i più bassi d’Europa (72 euro per ogni figlio) ed è uno dei soli sette paesi sui venticinque ad avere un tetto massimo di reddito per poterli percepire (47 mila euro l’anno) (Istituto di Politiche Familiari, 2007).
Occorre anche rilevare che l’Italia presenta condizioni “strutturali” peggiori di quelle degli altri paesi europei (per un confronto con la Francia, si veda Santini), ad esempio per quanto riguarda l’occupazione femminile, il cui valore era del 45,3% al 2005, ben lontano dal 60% fissato quale obiettivo di Lisbona e inferiore anche alla media europea (56,3%). Sebbene molte ricerche recenti abbiano finalmente smentito la relazione negativa esistente tra occupazione femminile e fecondità (si veda Del Boca e Rosina), nel nostro paese mettere al mondo un figlio comporta ancora sacrifici elevati per le donne, costrette talvolta a scegliere tra le due cose (si veda Rosina e Saraceno). In Italia, ad esempio, la percentuale di madri con figlio più piccolo di età inferiore ai 6 anni che lavora era pari al 2002 al 53% (Oecd, 2004), contro valori degli altri paesi europei superiori al 60%, o addirittura al 70% per Paesi Bassi, Danimarca, Austria, Svezia e Portogallo.
Molti sono, dunque, i fattori strutturali (e certamente anche culturali) che differenziano il nostro paese dalle altre realtà europee e che contribuiscono a determinarne la bassa fecondità, attualmente pari a solo 1,3 figli per donna, contro 1,5 in Europa. E non deve trarre in inganno la leggera ripresa delle nascite che si è manifestata negli ultimi anni (conseguenza anche del recupero delle donne in età più avanzata), che a una più attenta osservazione è apparsa subito “effimera” (Del Boca e Rosina), e che i dati a consuntivo non hanno infatti confermato (Rosina, 2007: l’anno del baby boom mancato, 13/02/2008)

Nell’allocazione delle proprie risorse sociali, l’Italia sceglie una strategia “difensiva”, che cerca di porre affannosamente rimedio ai danni causati dall’invecchiamento demografico aumentando la spesa sociale destinata a questo segmento di popolazione, piuttosto che una strategia “d’attacco”, che cerchi di modificarne una delle cause, la denatalità. Eppure, solo una redistribuzione della spesa sociale che si concretizzi in maggiori investimenti sulle famiglie e sui figli appare in grado di rilanciare la fecondità e quindi contrastare, almeno in parte, l’invecchiamento demografico, riducendo anche la pressione fiscale che ne deriva.
Parafrasando allora Rosina e Dalla Zuanna, non solo “Un futuro zoppo se si dimentica la famiglia”, forse addirittura “Niente futuro se si dimentica la famiglia”.
Riferimenti bibliografici
Abramovici G. (2005), Social protection in the European Union, Eurostat Publications, «Statistics in focus, Population and Social Conditions», n°14.
Istat (2006), Strutture familiari e opinioni su famiglia e figli, Indagine Multiscopo sulle famiglie «Famiglia e soggetti sociali» Anno 2003, Settore Famiglia e società, Informazioni n. 18
Istituto di Politiche Familiari (IPFE) (2007), Rapporto Evoluzione della Famiglia in Europa 2007, www.ipfe.org
OECD, Organization for economic cooperation and development (2002, 2003 e 2004). Babies and Bosses: Reconciling Work and Family Life, Volumes 1, 2 et 3, OECD Publication, Paris. (www.oecd.org/els/social/familyfriendly)
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