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Valorizzare le donne conviene (*)

E’ di nuovo l’8 marzo e nonostante le tante pagine scritte, i discorsi, i blogs, le manifestazioni di piazza e le dichiarazioni pubbliche, pochissimo è stato fatto per sostenere il lavoro delle donne. Eppure il cammino di quella “rivoluzione silenziosa” che ha trasformato la vita delle donne in molti paesi sviluppati attraverso cambiamenti, rivoluzionari appunto, nell’istruzione, nel mondo del lavoro e nella famiglia, è tutt’altro che completa in Italia.
Le rivoluzioni incomplete
La prima “rivoluzione”, quella dell’istruzione femminile, è quasi pienamente compiuta: le giovani italiane sono ormai più istruite degli uomini, anche se scelgono spesso percorsi di studio meno remunerativi nel mercato del lavoro. Le giovani, infatti, sembrano preferire le discipline dell’area umanistica, caratterizzata da livelli occupazionali e retributivi più bassi, mentre gli uomini scelgono maggiormente le discipline dell’area scientifica e ingegneristica, caratterizzata da livelli occupazionali e retributivi più elevati.
La seconda “rivoluzione”, quella del mercato del lavoro, resta largamente incompiuta. Il tasso di partecipazione lavorativa delle donne italiane è sempre il più basso di Europa, mentre il tempo dedicato al lavoro domestico e di cura è sempre il più alto. Tra le donne tra i 20 e i 34 anni nel 2010 il tasso di occupazione è addirittura sceso (al 48%, contro il 50% del 2000).
Una delle ragioni principali per la bassissima partecipazione delle donne italiane è dovuta al fatto che 1/4 delle donne occupate esce dal mercato del lavoro alla nascita del primo figlio. Tra le giovani sono addirittura in crescita le interruzioni imposte dal datore di lavoro (oltre la metà del totale)[i]. A sperimentare le interruzioni forzate del rapporto di lavoro sono soprattutto le giovani generazioni (il 13,1% tra le madri nate dopo il 1973) e le donne residenti nel Mezzogiorno. Le interruzioni, poi, si trasformano nella maggior parte dei casi in uscite prolungate dal mercato del lavoro: solo il 40% delle donne uscite riprende il lavoro (il 51% al Nord e il 23,5% al Sud).
Lontana dal compiersi e “tradita” (dagli uomini) è la rivoluzione all’interno della famiglia, nella ripartizione dei tempi e dei compiti familiari tra uomini e donne, così sbilanciata da creare, vista anche la scarsità di servizi di cura, enormi problemi di conciliazione tra lavoro e maternità e impedendo la crescita dell’occupazione femminile.
La rivoluzione di genere nella politica, poi, non è mai cominciata: ancora oggi, anche per la scarsa presenza di donne in parlamento (59 senatrici su 331 e 134 deputati donna su 630), le istanze e le proposte di legge su parità e politiche sociali a beneficio delle donne hanno un cammino lento e faticoso.
Misure che convengono a tutti
Se negli ultimi anni è mancata la volontà politica di cambiare e rendere più efficiente ed uguale per genere il nostro paese, adesso anche i più forti i vincoli finanziari della crisi economica portano a trascurare le donne nell’agenda politica del paese. Tuttavia ci sono interventi che sarebbero investimenti per il futuro, più che costi, e che potrebbero cominciare a cambiare il contesto in cui le donne (e gli uomini) vivono e lavorano. Un primo intervento importante sarebbe quello di fornire alle donne incentivi nei settori della formazione tecnico-scientifica (obiettivo strategico già dell’Unione Europea). In Italia questi strumenti sono praticamente assenti. Un secondo importante intervento sarebbe il ripristino della legge 188/2007 contro le dimissioni in bianco. Si tratta di una norma approvata da una maggioranza trasversale dal secondo Governo Prodi e cancellata dall’ex ministro Sacconi, che prevedeva l’uso di moduli numerati validi al massimo 15 giorni per presentare dimissioni volontarie. Un intervento davvero a costo zero, che consentirebbe di combattere questa pratica discriminatoria ottenendo maggiore occupazione femminile e favorendo la fecondità. Occorre poi introdurre incentivi ad una più equa divisione del lavoro domestico tra uomini e donne. Interventi cruciali in questa direzione riguardano i congedi parentali. Nell’ottobre del 2010 il Parlamento Europeo ha approvato una legge per proteggere le donne dal licenziamento a causa della maternità e garantire anche ai padri almeno due settimane di congedo obbligatorio (remunerato). Si possono anche estendere i congedi ai padri e pensare a congedi part-time per ambedue i genitori (sull’esempio della Svezia) in modo da ridurre l’impatto negativo sulla carriera e sui salari delle madri. Si tratta, di fatto, di ridistribuire su ambedue i genitori i costi dei congedi parentali. Questo tipo di iniziativa dovrebbe essere sostenuta da campagne di sensibilizzazione per i padri e le imprese. Il congedo ai padri aiuterebbe inoltre a promuovere la cultura della condivisione della cura dei figli, delle responsabilità e anche dei diritti tra madri e padri. Per le donne che lavorano è poi necessario un maggior sviluppo e monitoraggio delle politiche di conciliazione sul posto di lavoro, anche in applicazione dell’art 9 della legge 53/2000, che promuove e finanzia la messa in atto di buone prassi di conciliazione da parte le imprese[ii]. Infine è necessario aumentare la disponibilità e ridurre il costo per le famiglie dei servizi di cura per i bambini piccoli. Dopo l’intervento “Piano per i nidi 2007” del ministro Bindi, ben poco è stato fatto. In Italia, l’investimento pubblico nei bambini nella prima fase del ciclo di vita è limitato sia rispetto gli altri paesi europei, sia se si confrontano le spese pubbliche destinate a bambini di altre classi di età. La spesa media per i bambini in età 0-2 è infatti del 25% inferiore a quella media dei paesi OCSE e pari alla metà della spesa media destinata alle classi di età 6-11 e 12-16.
Di conseguenza, l’offerta nidi pubblici in Italia oggi è tra le più basse d’Europa e solo il 12% dei bambini sotto i tre anni ha un posto al nido pubblico, contro il 35-40 per cento della Francia e il 55-70 per cento dei paesi nordici. Il legame tra offerta di nidi, lavoro delle madri e risultati scolastici dei bambini è fondamentale. Non solo avere la madre che lavora non pregiudica lo sviluppo della capacità cognitive e comportamentali, come invece erroneamente spesso ritenuto, specie se il minor tempo che la madre trascorre con il figlio è compensato dal tempo di personale qualificato in strutture di elevata qualità, i nidi pubblici appunto. Anzi, quanto minore è il livello di istruzione e di reddito dei genitori, quanto più l’asilo nido assume il ruolo di investimento precoce nei bambini[iii]. Se si riconosce il ruolo dei nidi nel processo di accumulazione di capitale, allora la proposta è quella di inserire il nido nel sistema dell’istruzione scolastica pubblica. Costruire nuovi nidi pubblici è indubbiamente costoso, ma essi sono meritevoli di spesa pubblica come il resto dell’istruzione scolastica. E poi, un maggior numero di asili nido significherebbe una maggiore occupazione (femminile) sia per gli effetti diretti (le educatrici assunte) sia per gli effetti indiretti (più donne con figli potrebbero lavorare). è credibile quindi che, almeno in parte, il costo dei nuovi nidi potrebbe essere sostenuto dagli introiti derivanti dalle imposte sui redditi delle nuove assunte.
Per saperne di più
Del Boca D., Mencarini L. e Pasqua S. (2012), Valorizzare le donne conviene. Ruoli di genere nell’economia italiana, Il Mulino.


[i] Dati dell’Indagine Multiscopo sull’Uso del Tempo dell’ISTAT (2008-2009).

[ii] Visentini A. (2012), Sulla parità non bastano i buoni propositi, LaVoce.info, 26.01.2012.
[iii] Del Boca D., Pasqua S., Pronzato C. (2011) Il nido fa bene ai genitori e ai figli, LaVoce.info, 15.12.2011.
(*) Articolo presente anche su www.lavoce.info

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